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NUMBER 31

Dopo la fuga in Scozia, dal Natale 1999, (girolo The Glaswegians), nel 2004 fuggii dalle corvée festive, andando 9 giorni a Dublino: NON in Irlanda, ma a Dublino e nei dintorni sul Mare d’Irlanda, Killiney, Dun Laoghaire, Sandycove, Howth, Malahide, Kennisferry, Bray, Greystones. La capitale non è il Paese, ma qualcosa della famosissima campagna irlandese c’è, intorno a Dublino e sul Mare. C’è il grigio smorto di certe giornate, prima che si metta a nevicare; ma ho trovato anche cieli tersi, la luce infinita del Nord che infuoca i colori. Basta che guardiate The Spire, la guglia del centro di Dublino, col grigio e con la luce, per capire i contrasti. Avevo scelto, fidandomi della Lonely Planet, un B&B signorile, il N°31, in Leeson Close, appena fuori dal centro (dove sta il Trinity College, per intenderci): ci arrivai a fatica, trascinando un trolley a tarda sera, dal terminal busàras oltre Liffey. Fui premiata da una sistemazione speciale: una casa principale (dove facevo colazione) arredata dai due architetti proprietari, con gran gusto; un cortile privato colmo di vegetazione; una camera con bagno, curatissima. Da lì organizzavo i miei giroli diurni, rincasando per cenare in camera con roba pronta dei supermercati, oppure per tornare in centro, nella zona di Temple Bar, dove tutta notte si mangia, beve, ascolta musica, partecipando alle drinking songs. Tornando, col web, nel sito del N°31 sono rimasta di stucco: ha subito un refurbishment radicale, che lo rende più anonimo, troppo imbottito, troppo luxury, troppo trendy. Sicuramente si starà ancora benissimo, ma chissà se Mrs 31 prepara ancora la granola, ogni mattina, col profumo che arriva dalla porta aperta della sua cucina! number31.ie

ALLA SCOPERTA DI:

BONO E SINEAD

Era appena uscito l’LP degli U2 how to dismantle an atomic bomb e notai che a Dublino moltissimi locali sono di Bono, del fratello di Bono, della zia di Bono, di una presunta fidanzata di Bono. In alternativa ci sono locali dove ha cantato Sinéad O’Connor, dove ha lavato i piatti, dove si è affiliata a qualche setta religiosa. Il fratello di Sinéad (davvero) ha scritto I Veri Credenti, 13 racconti (1991): giovani irlandesi, in bilico, morbosi e devoti, ribelli e buffoni. La prima cosa in vita mia che ho letto di Joyce è stato un racconto meraviglioso dei Dubliners, Eveline: seduta al bancone di Doheny & Nesbitt, con una pinta di Smithwick’s. Mi sentivo come a leggere versetti della Bibbia, in chiesa (dohenyandnesbitt.ie). In quella zona (attorno a Grafton St.) trovate anche O’Donoghue’s  pub di culto e c’era, ma non c’è più, Toner, magnifico. La strada per rientrare da Temple Bar (cluster dei pub) non era breve ma non mi sembrava pericolosa, nemmeno dopo le 2 del mattino: ricordo una quantità di homeless che dormivano sui marciapiedi o nei porch delle case. Molti erano minorenni, talvolta c’erano famiglie con bambini e mi impressionò: l’Irlanda era la maggior destinataria dei Fondi UE per il rinnovo urbano e non dare loro un tetto strideva. Anche lì, come a Londra, Manchester, Barcellona, Lyon era in corso un investimento di rinnovo urbano concentrato sui docks, i quays, i porti: c’erano ponti di Santiago Calatrava come piovesse. I bambini all’addiaccio stridevano: persino la Lonely Planet ne parlava, avvisando di un numero eccessivo di beggars, anche giovanissimi. Le mie passeggiate nelle zone under rejuvenation non furono strepitose, forse avevo già visto troppi recuperi, vecchi magazzini, fabbriche di qualunque cosa e case di appartamenti nuove di zecca per una giovane upper class. Ricordo un manifesto sul Festival dei Docks, con una grande zucca di Halloween. C’erano anche le chiuse, tanti mattoni, le porte coloratissime, insegne d’antan e Guinness in ogni dove: The kitchen is crammed, the Guinness is great, (la Guinness ha assorbito quasi ogni altra marca di birra irlandese). Qualcuno mi disse di stare nella parte a sud del fiume Liffey, ché quella a nord era malfamata: così ci andai senz’altro e acquistai anche un bellissimo Barbour color melanzana, nuovo, ad un prezzo modesto, in O’Connel street. Il mio finto duvet rosso, 12 euro mercato di Marghera, lo lasciai appeso in un bagno di Marks&Spencer, sperando che lo trovasse un/a giovane homeless. Mi venne in mente di scriverci una novel, A Barbour in the Loo, ma non ho il talento di Edna O’Brian e di Catherine Dunne, due autrici irlandesi che potreste leggere, perché raccontano l’Irlanda, prima che prendesse i Fondi UE (The Country Girls Trilogy e Another Kind of Life). 

La prima cosa in vita mia che ho letto di Joyce è stato un racconto meraviglioso dei Dubliners, Eveline: seduta al bancone di Doheny & Nesbitt, con una pinta di Smithwick’s.

DART IN MY HEART

Perdonate il gioco di parole. La DART fu una vera scoperta di Dublino: una metropolitana leggera di superficie con la quale, da Dublino, potevi raggiungere the countryside, i resort sulla costa dell’Irish Sea, le spiagge urbane e i porticcioli che ricordano la Cornovaglia e il Galles; un residua flottiglia peschereccia dai meravigliosi colori, che squillano contro il cielo grigio piombo e ai rari sprazzi di sole. La Costa mi entusiasmò, mentre restai un po’ tiepida per i quay e i docks del Grand Canal, dove mi feci un selfie insieme a Kavanagh, poeta di cui ignoravo l’esistenza, al quale è stata dedicata una statua. Lì vicino c’è anche un monumento alla Famine, la carestia di metà Ottocento, subita dagli Irlandesi che non si sono fatti mancare nessuna tragedia collettiva: le statue di uomini, donne e bambini macilenti non sono allegre e nemmeno belle, ma ricordano. Non è bella nemmeno la famosa Molly Malone, procace pescivendola, eroina del folclore locale (in centro). Complessivamente Dublino mi piacque molto, ma non saprei indicarvi un sito particolarmente bello o “da vedere”. Al contrario vi raccomanderei caldamente la Costa: le fotografie vi danno un’idea delle mie scoperte (inattese), grazie alla DART. Luoghi di grande fascino, per raggiungere i quali il treno vi offre una immersione gratuita nell’Irlanda rurale, quella più famosa e che di solito motiva il viaggio fin lassù. Ma io no: lo sapete che sono Bastian Cuntrari e ho scelto l’inverno, stagione non ideale, anche se con me è stato clemente; e ho scelto la città, come al solito (se si girola da soli, la città fa compagnia). Non so preferire una delle mie destinazioni suburbane, decise dalle fermate della DART, erano tutte gradevoli e originali, ciascuna a suo modo: Sandymount forse ha la spiaggia e la costa più bella, per ampiezza e paesaggio, ma il Porto di Howth è più vivace e caratteristico; a Greystones mangiai del pesce fritto, sul porto (Dann&son?). Mi pare che ci fosse una villa di Bono (Martello Tower?) a Bray dove c’era perfino un Art Center e un pub d’antan Harbour Bar di un tal O’toole. Enniskerry, all’interno, era poco più di un crossroad; a Killiney vendevano una intera fila di case vittoriane, per qualche decina di milioni di sterline (Sorrento terrace?). Che dire di Marino, parco del quale non avrei ricordato l’esistenza se non avessi foto di una rotunda del ‘700, denominata Casino? Posso dire che 9 giorni senza DART sarebbero stati troppi: perché Dublino ha i suoi bei Musei, (zeppi di cose Italiane, of course), compreso un palazzo renaissance dedicato all’Arte Contemporanea (IMMA), bello come sito e il contenuto boh. Il tanto raccomandato Trinity College mi delude, niente a che vedere con Cambridge e Oxford e la sua Chapel è chiusa a Natale!! Solo la Sfera-nella-sfera di Pomodoro si distingue nel cortile (cose italiane). Le Chiese gotiche (San Patrizio e Santo Stefano??) niente a che vedere con Salisbury, Ely, Westminster ma nemmeno con Birmingham. Vagamente, e solo grazie ad alcuni appunti, mi ricordo la Chester Beatty Library, che ha una collezione mecenatesca di oggetti orientali. A differenza di Guilford, Manchester, Reading o anche Glasgow, Dublino non mi è parsa una città “normale”: non vi so dire perché. Basta essere Capitale di un piccolo Paese? O è l’Irlanda ad essere diversa dall’Inghilterra? 

THE TAOISEACH

Va oltre ogni diversità la lingua gaelico irlandese, che è ampiamente recuperata nelle doppie scritte sulla segnaletica stradale e nelle comunicazioni istituzionali (con il logo della UE): una manifestazioni etnica, molto morigerata in confronto ai Troubles, anche se siamo a Dublino e non a Belfast. Mi compero un thriller di Peter Cunningham, che ha un titolo in gaelico: the Taoiseach sarebbe il Primo Ministro, il Capo del Governo Irlandese. Il giallo mi piace, è imperniato su casi di corruzione dei politici, sugli interessi internazionali per il petrolio del Mare del Nord e su altre cose vere o molto verosimili. Non è Jan Rankin (girolo The Glaswegian), ma mi introduce meglio a questo Paese piccolo e complicato, che vuol rifarsi il trucco senza volere/poter nascondere rughe e cicatrici. Io, però, passo il mio Natale imbottita di comfort, nella camera bomboniera del N°31, sui treni veloci della DART e mi concedo persino un aperitivo al Shelbourne hotel, il N°27 all’angolo con St. Stephen Green, una piazza-parco elegante, a metà strada tra Molly Malone e il N°31. Il privilegio dei turisti è che possono ignorare anche quello che sanno e cercare di non venirne a sapere di più, nemmeno con gli indizi sulla corruzione e sugli homeless minorenni. Di Dublino, anyway, non porto a casa l’idea di una merry-go-round del commercio di qualunque cosa, come avevo fatto con Londra, né di una bomboniera come avevo visto Cambridge. Non ho memoria di vetrine folgoranti, templi di delicatessen, strade lussuose con le limo degli arabi, l’autista che attende fuori dai negozi delle griffes; chissà com’è ora Grafton Street. La parte malfamata, Liffey North ha dei negozi normali, soprattutto grandi magazzini per gente qualunque. Non ci sono andata di notte, confesso e non ho memoria di ubriachi violenti (paventati dalla Lonely). Forse c’erano: la versione cattiva degli homeless di St.Stephen Green. Ricordo parecchie case con urgente bisogno di restauri, porte e vetrine che stavano perdendo gli smaglianti colori e le biciclette scassate: niente di trendy, come le pieghevoli degli Sloane Ranger. La zona più animata, Temple Bar, era popolata, soprattutto la sera e la notte, da Dubliners o gente della Contea, che fuma e beve, ascoltare musica dal vivo e partecipa alle drinking songs di una band qualunque o degli avventori abituali. Una sera ho cenato in una specie di mensa, servendomi con dei mestoli da grandi vasche di alluminio: certi mesclùn insondabili, odore di cabbage, densità di fango, macchie unte color ruggine.  Poi mi sono omologata alla fauna locale, sembrava brutto andar via mentre tutti cantavano “a bar with no beer” (c’era un tipo identico a Liam Neeson in Michael Collins!), tracannano whisky, facendo venire mattino.