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LA BANDA ORIENTAL

Spiego subito questo titolo. Con buona pace degli uruguaiani, il loro Paese era considerato fino all’Ottocento una regione dell’Argentina, al di là del Rio Uruguay, che sfocia nel Mar de La Plata: la parte (banda) ad oriente del fiume. Poi, a seguito di guerre d’indipendenza (sia da Argentina che da Brasile), diventò la Repubblica Cisplatina, al di quà de la Plata. Spiega queste cose W.H. Hudson lo scrittore di Terra Rossa, libro del 1904. Dicono che Hudson abbia ispirato il Chatwin di In Patagonia, anche se il secondo è molto più noto. Lo scrittore che, per me, rappresenta intimamente lo spirito uruguaiano è, però, Horatio Quiroga: nativo del Rio Uruguay, dove ha viaggiato a lungo in motocicletta. Il volume di Racconti Anaconda è tutto molto bello, ma davvero speciale è Il tetto di incenso, che racconta di un censimento ai bordi della foresta Amazzonica. Un piccolo capolavoro. 

Quiroga spiega che, nella Banda Oriental, si trova un tipo di umanità molto particolare “come una palla di biliardo con l’effetto”: ad un certo punto il corso della loro vita scarterà all’improvviso, ma quella deriva è in realtà qualcosa che si portavano dentro, colpiti fin dall’inizio dalla stecca del Destino. Malinconia, fatalismo, ardori e follia: questa atmosfera è raccontata magistralmente da Quiroga e i suoi personaggi -direttori di saladero, distillatori di alcool d’arancia o di tannino di quebracho, impiegati governativi – forse li ho addirittura incontrati. I paesaggi, anche quelli suggerivano la possibilità di una “deriva”, chissà in quale forma.

Malinconia, fatalismo, ardori e follia

ALLA SCOPERTA DI:

HUDSON, CHATWIN, HANNIBAL

Noi siamo siamo partiti che era estate e siamo arrivati a Montevideo che faceva freddo. Noi, significa la Girolona, con due compagni che chiamerò come gli scrittori, Hudson e Chatwin, per poter raccontare senza urtare nessuno. Io ero entrata in delegazione per un effetto alla Quiroga, un caso. Come esperta di desarrollo turistico sembrai adatta per un progetto bilaterale, finanziato dalla UE e dal Mercosur, per sviluppare la regione del Rio Uruguay, tra Montevideo e Artigas, ai confini con il Brasile e il Paraguay. Hudson e Chatwin erano full professor dell’Università veneziana. In Uruguay viaggiavamo lussuosamente, su un’auto con autista messa a disposizione dalla Presidenza della Repubblica (per via del progetto bilaterale con l’Europa). Ci affidarono ad Hannibal, si chiamava davvero così, l’autista che ci accompagnò ovunque, e che divenne il nostro salvacondotto. Per ore ed ore, attraversammo pampas, laghi artificiali (embalses e represas per produrre energia elettrica e distribuire irrigazione), costanere, porti, moli, battelli spesso “alla deriva” e cittadine isolate nel nulla della Terra Rossa.  

Hannibal guidava indefesso senza quasi mai parlare se non quando rispondeva alle nostre domande; ogni tanto facevamo una sosta a bordo strada e lui ci offriva il Mate, versando acqua calda dai termos, dentro zucche svuotate, usate come tazze: sul fondo macerava una poltiglia di foglie, chissà da quanto tempo. Ci immergeva caratteristiche cannucce a forma di cucchiaio. Credo si dicesse pipar el mate”. Hannibal mi chiamava “Guapa”, la carina e aveva particolari riguardi come se io fossi una anomalia, in quel viaggio di affari e quindi maschile.

LE TERME DI DAYMAN

In Uruguay ho mangiato i migliori croissant e toast del mondo, per via della ridondanza di burro (e ogni altro prodotto dell’allevamento, la ganaderia); la birra si chiamava Brama Chopp. Ricordo uno spuntino che Hannibal ci procurò a bordo della piscina termale di Dayman, nessun turista solo vapori spettrali, in una atmosfera degna di Quiroga. Chatwin era attento ai bilanci più dell’Agenzia delle Entrate; Hudson aveva la diplomazia naturale del veneziano: ci serviva molto il suo talento per orchestrare la visione aziendale di Chatwin, che voleva attrarre investitori, con il mio disincanto sul futuro radioso di quel potenziale turistico. Secondo me, nessuno avrebbe mai fatto ore di aereo per venire in quelle piscine nebbiose, su quelle spiagge fangose che annegavano nel rio delle caracoles, a visitare Saladeri per conservare bestie ammazzate (come aveva fatto Herr Liebig) o Moelles protesi sul nulla per spedire tronchi d’albero. 

Ganaderia e madera, ganaderia e madera. Vacche vive e vacche morte. Alberi plantumati e alberi segati. Forse c’era un perché al suicidio di Quiroga (ma questo non lo dicevo). In dieci giorni di viaggio era tanto se avevamo visto 1 gaucho a cavallo o 1 indio Guaranì, indicatici da Hannibal come rarissimi esemplari. Il fascino pampero stava a zero. 

Nella parte orientale della Banda Oriental, vicino a Montevideo, c’era Punta del Este l’unico vero attrattore in tutto l’Uruguay di gringos (e di rarissimi europei): mai si sarebbero spostati per venire alle terme di Dayman o per la Playa Cabanas di Fray Bentos. Forse, suggeriva Hudson, potevamo attrarre i frontalieri dall’Argentina? Gli abitanti di Rosario o addirittura di Buenos Aires? Tra la fragranza dei toast al burro e sorsi di Brama Chopp ragionammo, finché dai vapori qualcosa saltò fuori, che desse ai nostri interlocutori locali una prospettiva, stava poi a loro provarci. È in quel Girolo che diventai esperta in “destination impossible”: quando un luogo proprio non riusciva ad entrare negli atlanti del turismo, oppure rischiava di uscirne, mi chiamavano.

Hannibal ci attendeva pazientissimo, pipando il suo mate, mentre noi immaginavamo il futuro delle Terme di Dayman: aveva il fatalismo indigeno di chi avrebbe visto passare anche questi Europei, anche la guapa, senza che il corso della sua storia personale e di quella del suo Paese cambiasse di una virgola. Oppure sarebbe cambiato del tutto, ma imprevedibilmente, per una deriva impressa dal Destino alla palla da biliardo, chissà quando. Se vi ho avvisato in ogni modo che questi Giroli NON sono guide turistiche, non dovete dedurre che sia sbagliato andare in Uruguay e lungo il Rio omonimo: dovete usare le mie memorie come suggestioni, leggere Quiroga, sfogliare le Guide Pirelli dei Paesi Sudamericani, fatte benissimo, organizzare un tour in America Latina che vi porti (anche) a Punta del Este e soprattutto alle Cascate dell’Iguazù. Andare nel sito di Manos del Uruguay a fare shopping comodamente da casa manos.uy, anche se, l’ho guardato nel 2021, non c’è nessun cappotto blu più bello di un Missoni o maglione giallo batata a trecce.

QUALCOSA DI NATIVO?

Fu Hudson a portarmi da Manos del Uruguay a Montevideo, vicino al nostro bell’Albergo in Piazza della Cachanga, per fare acquisti. Si tratta di una iniziativa che promuove e vende i manufatti delle donne uruguaiane, confezionati nei villaggi, rigorosamente a mano o con telai artigianali e tinti con i prodotti naturali estratti dalle erbe. Qualcuno in Italia mi chiese se il mio cappotto ai ferri, nelle tonalità del blu, fosse di Missoni: mi pare che esistesse anche un punto vendita a Milano, ma nell’immaginario collettivo Manos non era famoso come Tai e Rosita. A Montevideo, Hudson mi chiese di fargli da mannequin, disse proprio così, per aiutarlo a scegliere regali da portare in Italia. Fu una cosa di grande gentilezza: io non ho alcun requisito da indossatrice, il phisique du role, la grazia e lo stile, l’altezza. Semplicemente avevo una taglia simile alle destinatarie. Però, provare tutti quei vestiti, come una principessa che andrà al Ballo e sfilare sotto gli occhi complici delle donne uruguaiane e di Hudson, è stato un bello spot. Alla fine, pagando ciascuno il proprio conto, lui aggiunse al mio pacco una spilla, per fermare la ruana (il poncho aperto tipico del Paese), dicendo che era per la sfilata. Era un bovolo, un caracol di hierro forjado: ho scoperto dopo che era una specialità locale.

In tutti i chilometri macinati nel nulla, ci siamo fermati un’unica volta ad un mercato locale, a Tacuarembò, perché ci eravamo illusi che fosse organizzato dagli Indios: forse molti dei venditori risalivano a quell’etnia, a giudicare dai tratti somatici, simili agli andini. Ma i prodotti non avevano nulla di esotico e la cosa più originale fu un almanecem de ramos generales, un bazar o, per parlare gringo, un drugstore.

Con la delegazione  ufficiale abbiamo visitato il Frigorifico Anglo (patrimonio UNESCO, ovviamente) ma anche la attivissima Fabbrica saltena dei Fratelli Caputo, italiani, che producono citricos (agrumi) da esportazione. L’edificio è una delle opere maggiori di Eladio Dieste un ingegnere da noi sconosciuto ai più che ha disseminato le proprie cupole industriali in laterizio ovunque. Ha progettato il Club Remeros di Fray Bentos, e la ditta esportatrice della Coca Cola. Non so se quelle di Dieste siano da considerare meraviglie, se meritino il lungo viaggio per vederle: di sicuro la sua è una cifra originale e segna la Terra Rossa, altrimenti assai povera di architetture emergenti.

MONTEVIDEO, HIERRO FORGIADO

Già, tornare a Montevideo. Perché? Perché io amo le città, le capitali e credo che sappiano rinnovarsi continuamente e riservare luoghi da visitare anche se ci sei già stata. Viaggiando continuamente lungo il Rio, in città ho girolato poco, cercando comunque di farmene un’idea: almeno una visita al Porto e al suo Mercado, dove ho scoperto il Medio y medio, tipico aperitivo locale, e i tramezzini Cattivelli (una marca). Andando a caso, come faccio sempre, ho fotografato negozi (tiendas), garage, camion, spazzini, insegne. Mi sono fatta l’idea che le capitali sudamericane (al rientro siamo stati 10 ore a Buenos Aires) siano grandi musei dell’arte novecentesca: un catalogo infinito dell’Art Deco

L’edilizia minore, che si trova nei piccoli centri, lungo le vie di collegamento ma anche in alcune viuzze della capitale è invece elementare: sono parallelepipedi ad unico piano, con semplicissimi fori porta e finestre. Mi ricordano gli stazzi della Gallura o gli insediamenti lungo gli argini in pianura padana. Senza aver ancora sfogliato la Guida Pirelli (le avrei comperate a Buenos Aires, al ritorno), mi sono accorta della profusione speciale di ferri battuti el hierro forjado, che ornavano facciate, finestre, balconi, ringhiere. Una vera specialità locale: e infatti c’erano anche a Paysandù, Fray Bentos, Salto (dove è nato Quiroga), le città dove siamo stati con Hannibal. 

E OGNI VOLTA MI PERDO L’IGUAZÚ

Sono stata due volte in America latina, questa della Banda Oriental e quella nel Rio Grande do Sul nel 2002. Per due volte sono stata a meno di 400 chilometri da un luogo mitico, le cascate dell’Iguazù dove è ambientato il film Mission, di Roland Joffè. Le uniche Misiones che ho visto sono una cerveceria di Montevideo!! Robert de Niro e Jeremy Irons in quel film sono affascinanti anche più delle cascate, ma posso vederli quando voglio in streaming. Invece le cascate le avrei viste volentieri di persona ma nessuno dei miei compagni di girolo, né in questo uruguagio, né in quello del Rio Grande do Sul nel 2002, hanno voluto lasciarmi andare da sola. Non pareva loro appropriata una Guapa all’Iguazù

Avrei dovuto chiedere ad Hannibal, quando siamo arrivati al confine per camiones di Paysandù, se faceva uno strappo al protocollo e mi ci accompagnava. Ma la mia palla non aveva quell’effetto alla Quiroga.