Sarde a Pisa
LE SARDE DI PISA
Nell’estate del 1977, un cugino di Toni, ci aveva dato le chiavi dell’appartamento di Pisa, San Rossore, dove abitava frequentando l’Università. Era una casa dei Ferrovieri, perché San Rossore era ed è uno scalo di primaria importanza nella rete ferroviaria tirrenica; dalle finestre delle case “dei Ferrovieri” la Torre di Pisa si può quasi toccare e viceversa. Nella Fotografia del 1937, alle spalle di mia zia Fil e di mio zio Giaco, in cima alla Torre, si vedono quelle case e le Alpi Apuane. Era già tutto scritto? Ma no. Nel 1965, andando all’Isola d’Elba, io vengo fotografata vicino alla campana della Torre, ho 10 anni e sembro un maschio, non molto diverso da mio zio Giaco, vestito alla Marinara, vicino alla sua Mami e a mia mamma, trent’anni prima: alle loro spalle inconfondibile La Torre. Giò e Fil, nel 1932 sono fotografate sul Campo dei Miracoli: insomma, a Pisa, ci passavano spesso, forse andando al Mare a Fiumetto. Poi, arriva l’estate del 1977, finalmente sembro una femmina e Toni mi fotografa in una osteria con immancabile maglia a righe (sono viola e rosa shocking), ma sul prato di fronte al Camposanto, indosso addirittura un vestito vezzoso e ho i capelli lunghi, raccolti. Ecco perché si chiama Campo dei Miracoli.
Vabbè, ma le Sarde??! Nella casa dei Ferrovieri trovammo una ragazza, anche lei universitaria fuori sede, la quale andò a comperare le sarde al Mercato di Pisa e, gentilissima, ci invitò a cena: fece una teglia di pesce meravigliosa, al forno, con pangrattato, erbe aromatiche, pecorino. Forse era siciliana, ed erano sarde a beccafico, chissà. Nel fondo del mio barile, si stratificano associazioni, sapori, sensazioni, immagini: la ragazza di Pisa, le sarde al forno, io con un vestito da Signorina, la Torre. Così va la vita.
Sono tornata a Pisa nel 2019: un girolo in treno, con campo base a Pietrasanta, che non conoscevo ed è molto consigliabile. Da lì a Marina di Pietrasanta e Fiumetto, dove villeggiavano i miei Nonni con i figli. E poi, con una improvvisa deroga al girolo iniziale, fino a Pisa San Rossore: ripercorrendo i miei passi del 1977, le vie che si chiamano tutte Pisano, gli artisti del Campo: Giunta, Andrea, Bonanno. Tra il 1977 e il 2017 avevo scoperto che i Cinesi adorano la Torre pendente, la quale somiglia (secondo loro) a quelle dei Santuari buddisti che si chiamano pagode. A Canton ho comperato una magnifica borsa fatta in Italia (!!!) il cui marchio La Pargay ha come simbolo la Torre di Pisa. Sono l’unica europea che è tornata dalla Cina, con una borsa italiana priva di griffe, pagandola parecchio: tutte le Madame fanno incetta di Gucci, Ferragamo, Prada contrattando sul prezzo (che è già 15 volte inferiore). Così va il Mondo.
ALLA SCOPERTA DI:
PIETRASANTA
Cittadina minuta, quasi tutta chiusa dentro le proprie Mura, Pietrasanta è un cluster evidente di gallerie d’arte, probabilmente legate al bel mondo della Versilia. Nel centro storico, ogni negozio c’è una galleria; ogni galleria una exibition, una installazione, una vernice annunciata, un localino da cocktail, una boutique con abiti e scarpe d’artista. Poiché siamo in zona di marmi, si sprecano anche i magazzini di statue bianchissime: per ogni necessità e desiderio, dalla Pietà di Michelangelo a Robert Kennedy, passando per Veneri, Tritoni, Madonne (inclusa la Ciccone), angioli e putti per ogni giardino e fontana. Ci sono negozi di souvenir marmorei per ogni gusto e di ogni dimensione: mortai, scacchiere, cornucopie, capitelli, animali, lampade. Ceno per caso in via Stagio Stagi (un artista del Rinascimento), un locale talmente carino che ci torno tutte le sere (oggi mi pare che si chiami Il Giglio, ma aveva un altro nome). Mi piace moltissimo la Piazza del Duomo, raccolta, accogliente, illuminata il giusto e con un sacco di tavolini di Cafè. Da lì seduti, si gode la facciata bianca di San Martino (che ha un interno prezioso) e quella ambrata di un’altra Chiesa, quasi bizantina, Sant’Agostino ora destinata alle Mostre. Alle sue spalle, sopra un lungo tratto di Mura, il buio dei colli conferisce a questo spazio pubblico, l’intimità di un salotto, di sobria eleganza. Di mattina me ne vado a piedi (qualche chilometro) fino a Fiumetto, per vedere dove villeggiavano i Nonni: una bella camminata, il sito non è (più) nulla di speciale, anche se si intuisce che -tra gli anni Trenta e Quaranta- poteva avere il fascino del “naturale”, canali, campagne, dune, senza le pretese del Forte dei Marmi. C’è ancora chi si sposta per queste zone a cavallo. Lungo il percorso incrocio e fotografo una Colonia abbandonata con ceramiche decorative degli anni Quaranta che scoprirò essere di Antonia Campi, valtellinese classe 1921: le ha disegnate per la ditta Laveno Mombello (Lago Maggiore) che era proprietaria della Colonia. Ci sono polipi, pesci, conchiglie piatte e a chiocciola, alghe e stelle marine: un acquario che potrebbe non resistere all’Incuria, agli squatter e ai ladri di piastrelle d’antan.
CAMPO DEI MIRACOLI
Mi organizzo, per avere una mezza giornata a Pisa, e da lì rientrare direttamente a Parma. Ogni volta e nonostante la folla di turisti, il Campo è sempre un Miracolo. Non ci si può capacitare che sull’erba siano stati posati questi quattro giocattoli romanici, di stupefacente bellezza, originali, insoliti, intramontabili. Duomo, Campanile, Battistero e Camposanto. Oplà. Basterebbe il Campo di Pisa, per voler salvare il Mondo. Basterebbe avvistarli da qualunque viaggio galattico, una visione anche fugace, per voler venire a stabilirsi qui, su questa Terra, tra Umani capaci di fare queste cose. Si perdona tutto, si dimentica il resto. A Pisa sono sicura di preferire le architetture degli umani a quelle della Natura: senza la minima ombra di dubbio. Anche se lei, come città, non mi è simpatica, non ho mai avuto corrispondenze d’amorosi sensi e sì, bestemmio, per me il Campo potrebbe essere altrove, mi scuseranno i Pisani (se leggono) e gli esperti di arte che spiegano come potesse nascere così, soltanto qui, da quelle maestranze locali, con quei marmi apuani, in quel cultivar sull’Arno, ma non fiorentino. Confesso che a Pisa mi son sempre fermata poco, di passaggio e non ho dedicato il giusto tempo a tutti i suoi monumenti (nemmeno quelli in Campo, all’interno), ai suoi artisti e ai Musei. Mentre scrivo penso che devo farlo. Sul Lungarno, torno a vedere la Chiesa di Santa Maria della Spina, un gioiello, chiarissima nella mia memoria anche per la fotografia che mi ritrae mentre vado verso di lei, nel 1977. È un esempio di romanico tendente al gotico, di rara eleganza, di dimensioni perfette ed uniche, con un interno severo (a righe chiare e scure) di magica luminosità. Forse questa chiesa non potrebbe essere spostata altrove, anche se il fiume non necessariamente deve essere l’Arno! Ma basta scherzare con l’Arte. A Pisa non ho alcun caffè o osteria da consigliarvi: dopo le sarde della Casa dei ferrovieri, c’è stata solo una pizza col kebab (per essere originale era originale) mangiata un 31 dicembre, Stefano ed io che eravamo in un Motel a Marina di Pisa, e non volevamo locali col Cenone di Capodanno. Per negare ad ogni costo le Feste Comandate, ci siamo imposti uno squallore sublime, degno di Wim Wenders. Il primo dell’anno 2008, per restare Controcorrente, siamo andati a vedere una Torre a Marina di Pisa: quella della ex Colonia Fiat, stessa impronta delle Torri di Sestriere, stesso periodo, stessi Agnelli. Così vanno gli Architetti.
Non ci si può capacitare che sull’erba siano stati posati questi quattro giocattoli romanici, di stupefacente bellezza, originali, insoliti, intramontabili.
TRAMONTO APUANO
Nel mio breve girolo in Versilia, a inizio 2019, non mi sono fatta mancare Viareggio. C’ero stata anche per lavoro (nel 2000 avevo intervistato un esperto di portualità a terra, per ricoverare le barche fuori stagione) e per accompagnare Stefano che progettava il recupero di alcuni cascinali nella zona di Massaciuccoli, a Miglianello. Viareggio è piacevole, per essere una stazione turistica famosa e di impianto d’antan, si difende bene. La vera meraviglia è la quinta delle Apuane che le guarda le spalle, sempre visibile, dalla passeggiata e dalla spiaggia. La rende molto particolare. Nel 2019 sono quasi i giorni del suo famoso Carnevale: nei magazzini di Pietrasanta ho visto molti carri in preparazione. L’aria della sera è fredda e limpidissima, favorisce un tramonto spettacolare: lunghissimo, generoso di sfumature variegate, di contrasti in chiaro scuro, tra orizzonte marino e alpino. Un regalo. Si sopporta bene anche la quantità di escursionisti che, come me, se lo godono. Poi con un treno, rientro al campo base di Pietrasanta e torno nel mio ristorante in via Stagio Stagi. Quando si girola da sole, spesso si viene adottate da osti e ostesse, che prendono a cuore la vostra solitudine: due chiacchiere in più, una proposta di assaggio, magari persino un trattamento amichevole, soprattutto se tornate qualche sera di seguito. Esiste ancora, questa cosa dell’osteria “casalinga”, anche se la cucina è “di tendenza”, persino nei posti turistici: del cliente affezionato o che si potrebbe affezionare, della consuetudine che si potrebbe instaurare, se mai. Così va, l’Umanità.
Data la mia passione per Filippo Timi, il proprietario del Bar Lume nei romanzi di Marco Malvaldi e serie TV, non posso non dirvi che il litorale tra Viareggio e Marina di Pisa è proprio quello dove si immagina la cittadina di Pineta, luogo dei delitti. Nella gita a Marina di Pisa del Capodanno 2008 ho fotografato anche diversi trabaccoli, con le reti a bilancia (come quelle della Livenza e di San Gaetano): però ignoro se peschino anche le sarde.