RIOGRANDE DO SUL 1
LULA PRESIDENTE DEL BRASILE
L’elezione di Lula, Presidente del Brasile per la 3° volta nel 2022, mi riporta a una notte del 2002, una Casa de Ovelha (pecora) dove, ballando il samba, infilai un tacco nel ghiaino del cortile: fui salvata, al volo, da un compagno del PT, il partito di Lula, che mi evitò il peggio. I gauchos mi portarono nella stalla ed estrassero un paio di sassolini dalla caviglia, anestetizzando con aguardente de canha. Del Rio Grande do Sul, uno degli Stati, confederati nella repubblica do Brazil, ricordo con precisione il samba, la selva (il mata), i sandali col tacco, le caipirinhe, il churrasco, il maracuja (frutto della passione), il dialetto alto vicentino arcaico. La bellezza di quel girolo restano le persone incontrate e i personaggi che facevano parte della mia Delegazione. A ripensarlo, sembra una novella di Jorge Amado, per dire un Brasiliano noto a tutti. Qui, cerco di attenermi allo stile dei Giroli: non intendo promuovervi Caxia, Bento Gonçalves, Nova Bassano, Canela, Flores da Cunha, Farroupilha e nemmeno la Laguna di Puerto Alegre o il Rio Guaiba. Nel 2002 era molto di moda l’Orçamento Partecipativo: un metodo per far votare alle popolazioni locali le “poste di Bilancio”, chiedendo al popolo (povo) la preferenza per un investimento sociale piuttosto che un altro. I nostri ospiti locali erano amministratori: Pepe Vargas, medico omeopata, era Prefeito di Caxias e sarebbe stato Ministro, nel 2012, del Governo Dilma Rousseff, quando Lula iniziò le sue disgrazie (fu Presidente dal 2003 al 2011). Quando ci riunivamo in Municipio, a Caxia, si chiudeva la porta a chiave: “a volte, qualcuno entra e spara”, ci dicevano tranquilli, meglio non rischiare. Non esiste Guida o Tour Operator, nemmeno mooolto alternativo, che vi suggerisca il viaggio che noi facemmo; posso dire che si tratta di Caminhos do Imigraçao, le strade che i Veneti dell’Ottocento fecero per disboscare la Selva, fondare le proprie cittadine ed imprese, farci lavorare i tupi guaranì. Il nostro Progetto UE era un bilaterale Veneto-Rio Grande per ricostruire quelle memorie. La Guida TCI avverte: “denominatore comune del Paranà, del Santa Caterina e del Rio Grande do Sul è il fatto di non presentare, nelle città, aspetti storici ed estetici di alto interesse”. Anche se pensate che il TCI tratti turismo da vecchie signore, quasi sempre dice buona parte della verità. La Guida Routard nemmeno nomina Caxia pur avendo un Capitolo “Il Sul, Paese Gaucho”: leggerlo mi riporta in Uruguay e al girolo che continua a mancarmi, all’Iguazù (Girolo Uruguay). Ma, lo sapete, io ho viaggiato molto in luoghi anti-turistici, declining destination, normali. La ritengo una gran fortuna.
ALLA SCOPERTA DI:
SCARPE A RATE E CAIPIRINHA
Nessuno mi aveva avvisata che le calzature, per le femmine brasiliane (anche Riograndesi) sono un feticcio. Dopo qualche ora a Caxia, scoprii, fuori dal Bergson’s Flat, alcuni lussuosi negozi di calçados, belle senza dover essere italiane e a prezzi ridicoli. Eppure, quando decisi di riempirmi una valigia suppletiva (che pure comprai), rimasi scioccata dalla richiesta delle commesse: “paga tutto subito o preferisce le rate?”. Forse avevo esagerato (erano 5 paia), ma capii che la richiesta era normale anche per un solo paio o per un ammontare molto inferiore. Probabilmente le famiglie di Caxia avevano un reddito insufficiente, o famiglie numerose. Le scarpe mandarono in pari il mio credito, per aver resistito a quasi 30 ore di aerei ed aeroporti ed essere arrivata nel caldo umido del mata, tra pini, araucarie, baite di legno e tanti Veneti. Non saprei dire se furono i tacchi brasiliani, l’eccesso di aerei o di caipirinhe, ma tutti i miei giorni riograndesi, finivano all’alba in hotel: sdraiata per terra, le gambe sul letto, le caviglie circondate dalle lattine ghiacciate del frigobar. Nel vano tentativo di affrontare, poche ore dopo, escursioni, visite, discorsi, lezioni, sfilate seguendo le agende folli delle Delegazioni. A bere si cominciava troppo presto: fin da colazione, le comunità di Migranti che ci ospitavano, preparavano cori dialettali e marende, soppressa, frittata con cipolla, vino autoprodotto, con un livello di tannino da stroncare. Se ai veneti bevitori si associa la straordinaria produzione di liquori che il Rio Grande garantisce al resto del mondo (lavora per Alled Domenq, per dirne una), non c’è da stupirsi se, alla prima caipirinha (letteralmente: piccola provinciale), avevo già superato di molto il mio standard. Arrivavano queste mezze scorze di melone bianco, colme di ambrosia, frutti locali e canha. Usava farla girare, pipando con una comune bombilla (alla faccia dell’igiene) e passando al prossimo; rifiutare era offensivo. Non dirò delle cene a base di churrasco, cotto e servito sulle lame di spada: polli, maiali, jabalì (cinghialini), selvaggina, bue, insaccati, polpette, come se non ci fosse un domani. E per illuderci, ogni tanto, una spada di ananas grigliato: non osavano dire che “brucia i grassi”, per pudore. Siccome eravamo quasi sempre in una Cantina, figurarsi. Il mattino successivo, durante le visite a Cantine e Laboratori Enologici, mi schiantavo sul prato, sotto una araucaria, scalza, sperando di non essere notata. Nel pomeriggio mi toccava fare l’esperta di turismo e confortare la giusta rotta intrapresa dalle Amministrazioni locali, di recupero della Storia dei Migranti (Soprattutto Veneti e Trentini), di allestire Musei Etnografici zeppi di arredi e vasellame delle bisnonne, di produrre spettacoli nei dialetti originari, per tramandare ai nipoti. Ci fu anche uno Spettacolo Som Y Luz, in una Colonia Caxia ricostruita, con le case di legno dei pionieri, nello spazio enorme della Feira da Uva, la Fiera che è il vanto commerciale del Rio Grande. Ricordo cabine del telefono a forma di grappolo, inguardabili persino a Mirabilandia.
RIO GUAIBA E GAÚCHOS
Le caviglie non si riprendevano mai del tutto, dopo i samba fino alle due del mattino (anche senza tomboli sulla ghiaia), tra un coquetel de bom-vida con panini di pecora o esfinha di ascendenza turca, fino ad un almoço ao kilo (self service pagato a peso), alla cena tipica nel galpòn (il saloon dei gauchos), a gustare l’imperdibile feijoada o la ricerca gourmet della mousse di maracuja. Quando le orchestre suonavano La Ragazza di Ipanema, qualcuno ci spiegava: qui non è Brasile e ci rassicurava quello che avevamo capito da soli. Dovete andare a Bahia, là sì che è bello! A guardare sulla Mapa Rodoviaria, eravamo poco lontano dal mio Uruguay, in quel Sul del Sud, dove gli stereotipi turistici stanno a zero. Riguardo ora le foto di un Rio, che fa una curva da serpente, perduto là sotto, tra il verde del mata: forse è il Rio Guaiba, che poi forma un lago laguna verso Porto Alegre, dove sfocia in Oceano, o sono il Jacui e il Patos? Il chitarrista Xerusinho (letteralmente: zingarello) ci introdusse alla milonga e al chamamè, al rasguido doble: ballate tristi, recuperate dalla canzone popolare gaucha. La cultura dei sulini (gente del Sul) è quella del Paraguay, dell’alto Uruguay, del Noroeste Argentino. Volentieri metto la foto del chitarrista (vestito come se facesse parte dell’esercito di Guevara), vicino a Celso, il nostro autista di bus. Furono loro due a spiegarci l’insalatiera etnica del Brasile, grande universo mescolato dove indios nativi, conquistatori diversi, truppe e coloni al soldo di tanti padroni, disertori di tanti eserciti, rivoluzionari bianchi e colorati -senza farsi mancare i musulmani- si sono contaminati e avvicendati per secoli. Ci spiegano la danza dei boleadeiras -che roteano pericolosamente l’antico strumento di caccia, a tre palle- i bombachas dei ballerini (calzoni turchi), gli abiti spagnoleggianti delle ballerine di flamenco, la struggente malinconia delle chitarre (che sembra quasi Fado). Ci dicono che più o meno tutti sono stati gauchos, infatti il nome dell’altopiano è Serra gaucha, hanno allevato il bestiame; anche se adesso sembra che siano tutti viticultori. Celso ci racconta la sua vita in Amazzonia, come trasportatore di merci: “qualunque prodotto valga il costo di essere portato a Manaus, per essere prezzato, marchiato, confezionato dagli indios e riportato sui mercati!”. Questa visione del Paradiso Amazzonico, come Zona Franca commerciale mi sconcerta. Poi Celso racconta del trasporto sulle chiatte che, aumentando il moto ondoso, vengono staccate dai rimorchiatori e dio gliela mandi buona. Pericolose anche le secche, sempre più frequenti per il crollo degli argini disboscati, dentro il letto del Rio. Il mio girolo Riograndese è fatto di persone, che mi raccontano di luoghi.
La struggente malinconia delle chitarre
CAXIA
Nel Municipio di Caxia troneggia un panèl di Aldo Locatelli, a imperitura gloria della Colonia. Appaiono due negretti, in basso, inequivocabilmente servi nelle efficienti fattorie degli europei. Ma, spiega la Guida, il lavoro sporco con i tupi guaranì l’avevano già fatto i portoghesi. Ci vogliamo credere. Sta di fatto che l’Imperatore del Brasile vide nei Migranti europei, italiani e veneti, una popolazione idonea a colonizzare queste regioni: motivati, affamati e senzaterra. Oggi, esiste FUNAI, una ONG che tutela i nativi indios, ma allora hanno dovuto sfangarsela da soli. Sfangare è un verbo perfetto, qui: il chao resiste ancora prepotente in molti bairros periferici di questa città fondamentalmente europea, non bella, non caratteristica, certamente non turistica. Sono solo 370.000 abitanti, spalmati su una superficie sterminata: i migranti hanno disboscato la selva, si capisce dall’andamento delle vie rettilinee, che sono incisioni ondulanti, su è giù dai morros, le colline. Su Youtube ci sono dei giroli nel Centro di Caxia del 2021, che vi toglieranno ogni curiosità. Attorno, ci sono moltissimi bairros: alcuni benestanti, altri poverissimi. Ci sono andata con il Prefeito Vargas, al Barraco (un risanamento allora in corso); da sola al Planalto e con due delegati ad Ana Rech. Potete cercare anche Xerusinho su Youtube ed entrare nel mood musicale dei gauchos; lui si chiamava Parlan Bettanin (cognome vicentino!) ed è morto nel 2014, andando con l’auto contro un eucalipto.