Ponte di Mostar
EX JUGOSLAVIA: MANEGGIARE CON CURA
La leggerezza di un Girolo in Bosnia non deve offendere chi sente il peso plumbeo della vicenda jugoslava: la nostra guerra recente, in mezzo all’Europa. Per quel pochissimo che conta, la mia memoria del Ponte di Mostar, visto immediatamente prima che si scatenasse l’inferno, vuole essere un contributo alla normalità, se esiste. Intendo dirvi: andate fino a Sarajevo, lungo la Valle della Neretva (Narenta), non pensate che la ex Jugoslavia sia soltanto la superba costa Dalmata della Croazia, è molto di più. Se non fosse esplosa la Pandemia, avevo in progetto un Girolo a Belgrado: voglio vedere e provare a capire. Il primo viaggio in Jugoslavia l’ho fatto nel 1972, con mio cugino e gli zii: abbiamo attraversato la Repubblica ancora unita come l’aveva “fatta” il Marsala Tita, Maresciallo Tito (morto nel 1980, come mio padre). Forse soffro di jugonostalgia, la nostalgia di chi pensava fosse meglio prima, ma è la posizione di una girolona, senza una seria base storica, politica, sociale, lasciatemi perdere. Nel 1972, con l’automobile degli zii, abbiamo coperto l’intera lunghezza della penisola balcanica (quasi 1.000 km) da Nova Gorica fino a Nis in Serbia, prima di entrare in Bulgaria: ricordo trattorie contadine che servivano pollo ruspante, yogurt fantastico, donne in nero che vendevano fichi o carote dei loro cortili, Adriano Celentano dai megafoni a tutto spiano, belle ragazze a spasso per Belgrado. Dopo una vacanza a Krk e due gite a Lubiana, negli anni Ottanta, nel 1990 ho deciso di arrivare fino a Sarajevo, che mi sembrava l’avamposto dell’Islam e un crogiolo di culture, che convivevano. Appena messo piede nella Repubblica Federale, ci siamo accorti che la “colla di Tito” non teneva più e una marea di partiti e partitini si stavano affollando sulla scena, per le prime “libere elezioni”: bastava guardare i manifesti che tappezzavano Zara, Sebenico, Spalato, ancora sulla pacifica e luminosa costa adriatica, così lontana da Belgrado. Nuove coalizioni, grafica accurata, offerta politica per ogni gusto: eccesso da debuttanti della Democrazia, occhi fissi sull’Europa dell’Ovest, dove era caduto il Muro di Berlino. Noi, beati turisti, subito dopo Makarska, abbiamo imboccato la Valle della Neretva, verso l’avamposto dell’Oriente. Stavano su una polveriera, ma potevamo non accorgercene.
Nessuno può immaginare che cosa significhi
nascere e vivere al confine fra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue…
amarli entrambi e oscillare tra l’uno e l’altro
…avere due patrie e non averne nessuna,
essere di casa ovunque
e rimanere estraneo a tutti….
essere carnefice e vittima.
IVO ANDRIC
ALLA SCOPERTA DI:
POCITELJ: DELIZIA TURCA
Pocitelj è stata una vera sorpresa. Deliziosa, a crocchio sul fiume, tra verdi boschetti, con la sua ridda di cupole e minareti: inattesa, indolente, sconosciuta ai più, anche se viaggiavo con la fedelissima Guida Verde Jugoslavia, del TCI. Fortezza turca, Pocitelj ha una concentrazione esemplare di siti islamici: la Madrasa (scuola Coranica), il Konak (palazzo), il bazar e la moschea. Io ero già stata ad Istambul, con gli zii, ma per Stefano era una una vera iniziazione. Le immagini del 1990 (con la fedelissima Olympus OM10) trovano pieno riscontro in quelle di 20 anni dopo, quando nel 2008 ho deciso che era ora di tornare in Bosnia, finita la Guerra. Pocitelj è stata molto conservata (o ben ricostruita?) ed ha assunto un tono definitivamente turistico. Tutti gli edifici sono rimessi a nuovo, si possono visitare, ci sono cafeterie, wine bar, ristoranti e hotel. La normalità, almeno per il tempo di una escursione, sembra ristabilita: la tappa è molto raccomandabile. Poi ci si addentra nella Valle della Narenta, “Neretva od Boga procleta” maledetta da Dio, secondo l’Abate Fortis, nel suo giornale di viaggio del 1774 (un girolone della Serenissima). Anche se non c’è più il morbo naroniano (la malaria?), febbri autunnali micidiali come la peste, la Bosnia non sembra una terra festosa, non ha certo lo splendore luminoso della Costa Dalmata: ci addentriamo in una enclave europea diversa. Non tutti sanno che negli anni Ottanta questi luoghi, le loro montagne, hanno ospitato le Olimpiadi Invernali (1984), quindi attrazioni ed impianti ci sono stati: un tentativo di accreditarsi nel mondo, per il turismo della neve. Se andate in olympics.com trovate un film dell’Evento, commovente per il suo sapore d’antan. Già nel 1990 gli hotel delle Olimpiadi, che avevano osato una architettura modernissima, segnavano il tempo. Oggi bisogna essere giroloni davvero alternativi per andare fino a Sarajevo a vedere la Pista di Bob, un rudere che nessun graffito riesce a togliere dalla desolazione.
IL PONTE RIFATTO COM’ERA E DOV’ERA
Nel 1990, se Pocitelj mi ha colpita, il Ponte di Mostar mi ha folgorata. Scrive Andric:
Non esistono costruzioni casuali, staccate dall’ambiente umano nel quale sono sorte, non esistono linee arbitrarie.
Ecco. Lo stari most (vecchio ponte, che da il nome al luogo mostar) è semplice, severo, forte come quelli romani sui torrenti della Valle d’Aosta. Un asinello, animale cui si ricorre spesso, per descrivere questa tipologia: schiena d’asino, si dice o dorso di mulo. Si può pensare di una costruzione che è paziente e servizievole, ma orgogliosa?! Quando lo hanno bombardato e abbattuto, mi ha fatto male. Stefano ed io abbiamo ripensato allo struscio di ragazzi in jeans che lo popolavano, ogni sera, in un rito sociale normale, l’ambiente umano della convivenza. In ogni caso sono tanto contenta di averlo visto PRIMA, perché era più bello. Chi lo ha ricostruito, com’era (sì), dov’era (certo), ridando completezza all’insieme che lo “contiene” da ambo i lati, le torri bastionate Helebija e Tara, ha fatto un meritevole lavoro, filologico e accurato. Meno male! Quanti lo vedono OGGI lo troveranno molto bello, suggestivo e caratteristico, come giusto che sia. Ma, accidenti alla memoria di chi lo ha visto prima e penso agli abitanti di Mostar, che erano giovani al tempo della Guerra: altro che jugonostalgia! Non è solo per le pietre nuove, per la completezza del sito troppo perfetto, un po’ museale: sono anche le botteghe di souvenir che lo assediano, che lo qualificano come “cosa da vedere”, un highlight. Nel 1990 non c’era niente di tutto questo, ma. Se è diventata una attrazione il “sentiero di Ho-chi-minh” in Vietnam, figurarsi se i Bosniaci possono fare a meno di promuovere il proprio “monumento famoso”. Meglio ricostruito che rudere: il resto è il prezzo da pagare e, alla fine, la Bosnia ne ha pagati di molto peggiori. Tra i vari recuperi di Mostar c’è anche una deliziosa piccola Moschea (direi che si chiami Koski Mehmel Pasha): spero non sia irrispettoso averla fotografata, cosa che NON era proibita. Niente a che vedere con la suggestione di Pocitelj (o con la maestosità di Istanbul): ma è una immersione nell’Islam, il mio movente originario per affrontare la maledetta Narenta.
IL BAZAR DI SARAJEVO
La destinazione finale nel 1990 e anche nel 2008 è stata Sarajevo. La capitale bosniaca aveva, prima della Guerra, un miscuglio di fascini diversi: un po’ Titina, un po’ balcanica, un po’ rurale, un po’ capitale, un po’ austroungarica, un po’ ottomana e soprattutto per noi occidentali, molto islamica. Le moschee, i cortili delle moschee, le fonti per lavarsi i piedi, le preghiere, i tappeti; le donne velate, i maschi con le tuniche, talvolta i turbanti; i cimiteri con le turbe; le scritte dorate coi caratteri arabi che per noi son solo disegni. E poi il meraviglioso mesclun di botteghe, la Bascarsija, coi negozi di lattoniere limar, di spazzole cetkarska, di pane arabo, di scialli e tappeti, di baklava annegata nello sciroppo, le cevabdrinica. Ricordo il fascino delle çorba, zuppe dense e speziate, dello yogurt col succo di rosa, novità assolute sperimentate al Moriça Han (un ex caravanserraglio) e al Daira (che non esiste più). Non ho tante foto di Sarajevo, perché mi facevo scrupolo a fotografare l’islam e anche quella che per noi, Europei dell’Ovest, era in tanti modi una “quasi-povertà”. Quando siamo tornati, nel 2008, ho avuto uno scrupolo diverso: non riuscivo a certificare il cambiamento, che era cospicuo e non mi piaceva. Sarajevo è stata massacrata dalla guerra: la fotografia dell’hotel Neretva com’era nel 2008 parla, ma quella del 1990 delle colline da cui avrebbero sparato i cecchini, mi inquieta anche di più. In quel tessuto di case si sarebbe svolto qualcosa di fatale, che noi e forse anche loro non potevamo prevedere.
Nella distruzione di Sarajevo è andata perduta anche la Cineteca. La Biennale di Venezia ha contribuito a metterne in sicurezza il materiale con una Rassegna nel 2000 La Meticcia di Fuoco. Film tosti, non proprio la Melevisione: storie cruente o tristissime, di guerre, deportazione, miniere, persecuzioni e gulag, invasioni, emigrazioni, feroce censura, miseria. Una regione europea a cui la Storia non ha mai sorriso tanto. Se leggete Andric, bosniaco premio Nobel, le storie non sono mai allegre, anche quando sono ironiche o delicate: vi suggerisco I tempi di Annika (una perla). Dubranka Ugresic ha scritto The Ministry of Pain, un romanzo forte sugli ex Jugoslavi; sulla jugonostalgia, il suo Museo della Resa Incondizionata, dice tutto già nel titolo.
Non potrei davvero farvi girolare in Bosnia, senza segnalarvi il lavoro di Roberta Biagiarelli, che da oltre vent’anni replica il suo monologo A come Srebrenica su quel genocidio del 1995 e sul ritorno alla normalità possibile. Mi chiede da anni, se vado con lei a Srebrenica, a vedere: per adesso ho visto lei 4 o 5 volte in scena, sempre con grande emozione. Dicono che gli attori siano dei ponti. So che qualcuno/a penserà, non ci vado in posti maledetti da Dio, in viaggio per soffrire?!! Ma girolare non è sempre un’happy hour, anche capire fa bene.
Tra quante cose esistono terribili
nessuna è più terribile dell’uomo
di sé fa il proprio nemico
calpesta spietato i suoi simili
l’umano tiene in conto di nulla
così terribile diventa
a sé stesso.
(ADATTAMENTO DI BRECHT DALL’ANTIGONE DI SOFOCLE)