Passioni in Valle Elvo
LA SANTINA DETTA CIAN
A Sordevolo, paese della Valle Elvo, sono legata perché da lì veniva la Santina, da me chiamata Cian: quando ero bambina, a Mongrando Curanuova, è stata la mia madre seconda, dato che la madre prima Angiola detta Giò lavorava fuori casa. In estate, andavo con la Santina a fare fieno nei prati di suo padre e dei suoi fratelli a Sordevolo, credo fossero 9: mi piaceva bere acqua e limone col mestolo di latta, dal pentolone comune. Se stavamo a Mongrando, la Cian mi faceva giocare con l’acqua, insegnandomi a lavare bene col VIM (rigorosamente in polvere): passavo ore a lustrare le vasche del lavello e lo scolatoio scanalato. Niente di strano, quindi, che il mio grande amore fossero i lavatoi pubblici: il mio prediletto era a San Lorenzo, Mongrando, come vi ho raccontato nel Girolo Lavatoio mon amour 1. Ci si arrivava con una passeggiata ripida da dove abitavamo, negli ex uffici della Filatura Lana Pettinata: mio padre Toio e la Cian lavoravano lì. Lei, dopo il turno in fabbrica, veniva da noi: si occupava della casa e di me. Nel 2020, le ho chiesto ma tu, Cian, dove dormivi, a casa nostra? Perché la mia dormeuse era ai piedi del letto matrimoniale e i miei fratelli avevano una camera insieme, con 2 letti gemelli e i copriletto a righe rosse e blu (anche se mio padre era Juventino e la mamma del Toro). Santina ha risposto placidamente, in Fabbrica, con le altre, la cosa più ovvia del mondo. La Filatura era a ciclo continuo e c’erano turni di 8 ore: anche di notte, dalle 22 alle 6. Molte ragazze venivano, come lei, dai paesi delle valli e non potevano di sicuro tornare a casa tutti i giorni, magari con la bicicletta. Anni ‘50, altri tempi.
ALLA SCOPERTA DI:
LA PASSIONE A SORDEVOLO
Poi Sordevolo è entrata nelle mie attenzioni di adulta perché ogni 4 anni si svolge la Passione, versione teatralizzata recitata dagli abitanti del posto e venduta ai quattro canti del mondo. Quando ho deciso che era ora di assistervi, è arrivata la Pandemia da Covid e sto ancora aspettando. Sordevolo, aveva parecchie industrie, alcune legate al tessile, fiorite addirittura nel Settecento, come i celebri Vaneji Ambrosetti. C’è stata, fino a fine Novecento, una Pincopatura che credo fosse quasi unica in Italia: produceva i cilindretti di cartone duro dei cosiddetti cucirini, i fili, per le macchine industriali da confezione. Oggi tutto è di plastica. Il nome deriva dalle macchine Pincos, pare, ma ormai la Memoria locale si sta perdendo, insieme alle fabbriche. Io ho una vera passione per i nomi del tessile: ambrosette, pirlate, alphetik mezzalana, droghetti e frisni mollettoni, saglie, crepo. Oggi, Sordevolo, è un piccolo paese ben conservato, in amena posizione, abbastanza elevata da essere fresca: è diventata meta abituale dei miei giroli biellesi, per la presenza di qualche ristorante gradevole ( la storica Ca’ ‘d Gamba, la Locanda Rubiola) e di qualche bar da aperitivo, panino, tagliere, hamburger (l’Orangerie di Villa Cernigliaro detta Serra dei Leoni, i 4 Folli, la Croce di Ferro in Piazza, il Bar Wool 2.0). Ci sono parecchie chiese -tanta roba per un piccolo centro- e se si sale verso quella di San Grato, si hanno begli scorci di paesaggio e vedute “a valle”: una lapide ricorda Giulio Pastore, Ministro per le Aree depresse del Centro Nord che nel 1971 finanziò questa strada, voluta dal Comune di Sordevolo e dalla Comunità Montana. Oltre a Villa Cernigliaro (già Germano-Antonicelli), Sordevolo vanta un ricco campionario di dimore padronali, soprattutto lungo la strada che lo congiunge a Pollone, (Girolo Pollone). Dal centro di Sordevolo, scendendo a Biella, girando subito a destra, al Bar Wool 2.0 , in via Adele De Valle Bona, si raggiunge il Cimitero: fuori dal cancello c’è un Oratorio: ha un tempietto centrale e due ali di porticato, semplici ed eleganti, in bianco e grigio. Non si entra. Alla Corona di Ferro, di fianco alla Parrocchiale e al Municipio, mi spiegano che viene aperto una volta l’anno, per la Festa di San Rocco, cui è dedicato. Sul muro di cinta, un cartello indica Regione Dreur, in mezzo ai boschi. Leggo online che Dreur è il sito in cui, fino al crollo totale, c’era un vecchio stabilimento laniero dei Sormano. Dalle immagini assomiglia moltissimo alla celebre Trappa, ex lanificio Ambrosetti passato ai Frati Trappisti. Mi faccio l’idea che dal Dreur si possa proseguire per Bagneri e magari per la stessa Trappa, lungo il mitico Tracciolino. Mia madre e mia zia inorridirebbero, alla mia ignavia sentieristica sulle valli biellesi. Voi andate online, oppure comperatevi le meravigliose Carte dei Sentieri.
CESARE PAVESE A S.GRATO
Io ho seguito un sentiero intellettuale, partendo dai cognomi sulla targa fuori San Rocco: Antonicelli e Germano sono qui sepolti, ci informa francoantonicelli.it. Confesso che il buio era fitto e ha cominciato a dissiparsi online, quando ho visto Cesare Pavese, Leone Ginzburg, l’editore Frassinelli in maniche di camicia e Franco Antonicelli seduti niente meno che sul muretto di San Grato, 1932. Acci! Mentre la mamma e la zia facevano escursioni lì presso con le ragazzine Buscaglione, gli intellettuali piemontesi disquisivano con l’ospite di Sordevolo, che viveva nella Villa simbolo del Paese, oggi conosciuta come Cernigliaro. Se ho capito bene era casa di Annibale Germano, notaro di industriali biellesi e torinesi, tra cui Agnelli (padre) e Gualino. Nel Girolo Pollone, leggete che erano amici anche dei Frassati, lui fondatore della Stampa di Torino e lei, Ametis, allieva di Lorenzo Delleani: tout se tiens. Vi confesso che l’abbinamento tra la mia adorata Santina e la mia passione giovanile per Cesare Pavese, mi rendono Sordevolo, definitivamente cara. Il luogo percepisce questa mia emozione e mi regala uno scatto speciale: una casina bianca di via Adele De Bona, rustico destinato a sparire, con alle spalle un muro di forati: sapete che sono un’altra mia passione. Ci manca un fine giornata con le luci e ombre sulla Muanda e poi mi commuovo: come antidoto un buon americano servito nel parco della Cernigliaro, da un ragazzo professionale e gentile, che studia in Svizzera.
GATTILOGNE A BAGNERI
Se ho affetto per Sordevolo, la mia passione bambinesca era Bagneri, che di Sordevolo sarebbe una frazione. Si accede superando il capoluogo, verso il cosiddetto Tracciolino, passando per la Bossola e San Carlo (un pezzo del Sacro Monte di Graglia). Ma ormai mi conoscete, non sono precisa sui percorsi e mai sicura nemmeno di quelli che ho fatto e che ricordo a memoria, senza controllare, sbagliandomi. Cercate i sentieri del Biellese, online trovate qualunque cosa bagneri.it viaggiaescopri.it. Bagneri e Salvine erano la meta dei nostri pranzi al sacco sui prati (così chiamavamo i pic-nic): mia madre Giò annunciava “oggi porto i bambini in Salvine” lo diceva al papi che rimaneva in Fabbrica a Mongrando o alla Nonna ché non si preoccupasse. Io adoravo Bagneri, anche se può darsi che la coperta sul prato la mettessimo in Salvine: si dice sia il più bel alpeggio biellese. Di Bagneri mi piaceva tanto la Chiesa così pittoresca, col piazzale affacciato sui boschi, il portico e i muretti di pietra liscia e calda su cui sedersi (come Cesare Pavese a San Grato!!) o addirittura sdraiarsi. Ogni volta che mi siedo al sole, da 67 anni, io sono a Bagneri. Ci sono tornata nella clausura del 2020, solo per passione, affrontando una discesa e risalita di forse 15 minuti che per una gatta di piombo sono tanta roba. Per fortuna lungo il cammino, che scende dal Tracciolino e vi risale, c’è anche una edicola votiva, alla Madonna, ottima scusa per una sosta ed una invocazione a farmi resistere. Ci sarebbe anche la Madonna del Piumin, dell’artista locale Sandrun (destinata altrove ma poi rimasta qui): mi perdoni il Sandrun, ma preferisco le Madonne sui muri, senza pretese artistiche.
Salvine: si dice sia il più bel alpeggio biellese
Gli affreschi sulla facciata di Bagneri sono rusticani, grezzi e rudi, fino a commuovere. L’amarcord del mio piccolo paradiso è in parte deludente: la Chiesa è niente di che, chissà quale fascino esercitavano su di me quel portico senza colonne di Sienite e l’interno così spartano. Forse era finita la mia fatica di salire e mi piaceva sentire il fresco sulla faccia accaldata o pregustare il pranzo al sacco, sul plaid con le frange. Il nucleo di case è stato meritoriamente restaurato, viene gestito come parte di un Ecomuseo, con qualche spazio espositivo e di ristoro per i visitatori che arrivano qui soltanto a piedi, per fortuna. Adesso è tutto chiuso, a doppia mandata: giorno feriale di pandemia, figurarsi. Però ci sono due o tre ragazzi che trasportano alimentari e bibite, con uno strano veicolo a motore, capace di fare gli scalini di sassi; forse per il fine settimana. Le baite, devo dirlo, sono più belle di come le ricordavo e più belle della Chiesa, che mi era rimasta come icona: vai a capire come lavora la memoria del cuore. Con la mamma, forse, salivamo direttamente da Graglia o forse venivamo proprio da Sordevolo, passando il torrente Janca, in ogni caso camminavamo molto più di 10 minuti. La gita occupava l’intera giornata e io non potevo né rifiutarmi né lamentarmi, perché così era il regime famigliare, di giroloni alpinisti. E poi c’era il miraggio del pranzo sul prato. L’acqua, potevo prenderla alla cannella della fontana, col bicchiere di latta Ricordo di Oropa, approfittando per affondare le braccia fino al gomito nella vasca di pietra. Mi ci sarei immersa, ma la mia madre prima diceva “NO!”, il binomio sudato-ghiacciato non era consentito. Suprema passione erano le gattilogne che la mamma mi faceva solo lì, sulla coperta del pranzo al sacco (che restava sempre nel baule dell’automobile e solo per quello scopo): gattilogne erano grattatine carezzevoli, come quelle che fai al gatto perché ronfi di piacere. E anche una gatta di piombo sa ronfare.