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NAZARETH

Se c’è un posto dove voglio andare, nel Nord Africa, è Beirut: non ero attratta in nessun modo da Gerusalemme, né da Israele o Palestina. Invece, nell’anno del Giubileo 2000, Unesco mi invitò a presentare le Ville del Brenta, ad un simposio sull’Heritage Turistico, a Nazareth, che i locali pronunciano Nazrath. Così ho iniziato dove tutto è iniziato, nella città di Maria, cui l’Angelo annunzia. E poi sono finita a Gerusalemme, Al Qud in arabo e alla Porta di Damasco sono “caduta” come San Paolo: non convertita, ma folgorata dall’atmosfera della Città Santa. Se i Vangeli sono Storia, non potevano che accadere in quella Terra; se sono invenzione, l’ambientazione è perfetta e la rende credibile.

ALLA SCOPERTA DI:

TERRA SANTA 

L’atmosfera è già tutta speciale, appena fuori dalle dogane dell’Aeroporto. Siamo nel Sud del Mondo e la luce, il clima, il profumo è quello dei bordi Mediterranei. L’autista arabo tratta le H e le Z come le risucchiasse. Sullo shuttle dell’HJ, Ha’ Maayan, un lussuoso hotel di Nazareth, viaggio con Ebany and Ivory, i miei colleghi veneziani: lo scuro è la quintessenza levantina, il luminoso incarna il Nord Europa. Tra loro c’è una querelle incessante, la colonna sonora di questo girolo. Nazareth è un paese calabro: case non finite, guaine di polivinile che aspettano i cavi, tombini fuori sede e rubinetti, manette, leve, giunti che non collegano, bordi strada col cemento fresco già calpestato, spiazzi semidivelti, mucchi di materiali edili, sacchi di malta, betoniere, scorci di edilizia mal tenuta o mai finita e di cantieri improbabili. A Nazrath tutto è mariano: la madonna è il genius loci, trasformato in sponsor ufficiale. Il sindaco, col suo inglese arabico, mi spiega: “in Europa pretendono di aver visto la Madonna: Fatima, Lourdes, Loreto. But here, Izabel, we have the fact”. A tal punto sono fatti, che per tacitare le polemiche su dove l’Angelo sia effettivamente apparso, hanno fatto due monumenti: una piccola chiesa alla Fontana di Maria (oggi di confessione Copta, piena di belle icone) e la Grande Basilica (modernissima) che trovate in tutte le Guide e i Siti. Sono unite dal Viale intitolato a Paolo VI, perché Nazrath è un’enclave cattolica, nel cuore di Israele. Vita non facile.

NON DI SOLO PANE 

La colazione dell’HJ hotel è ricca in modo imbarazzante: ci sono zuppiere con spicchi di pompelmo già spelato e di yogurt alla pesca, nettare per gli dei. Ci sono vasi alti di marmellate dai colori preziosi: giallo ambra, giallo agata, arancione corniola, bruno avventurina, viola ametista. Le bucce di agrume caramellate sono un vero e proprio inno nazionale. Mentre Ivory mi raccomanda di non andare in giro da sola e non mettere in bocca qualsiasi porcheria, Ebany caldeggia il contrario e dice “beata te che non devi stare tutto il giorno qui, in mezzo ai professori”. Il nostro collega locale, Shoval,  mi suggerisce, gentilissimo, di tenere sempre con me una sciarpa, da mettere in testa, semmai. Nessuno mi può trattenere dal girolare per il mercato di Nazrath e per le strade normali, che si allontanano dai luoghi mariani e dagli hotel per stranieri. Le botteghe sono fantastiche, a cominciare da quella di Giuseppe il Falegname, e poi le donne con le erbe in terra, il Feddahyn che vende puntarelle, lo spazzino con l’asino dei bidoni, le pezze multicolori, la carne appena macellata, il pane cotto sulla piastra di metallo. Naturalmente do retta ad Ebany e mangio qualunque cosa sia nelle ciotole sui banconi di vetro di locali che non sono nè cafè, ne ristoranti, ne alimentari, forse tavole calde, dove gli arabi si fermano a parlare, mangiare, fumare. Pile di pitta, cesti di ka’esk (piccole baguette al sesamo), yogurt condito chissà come, formaggio o latte di capra, montagne di prezzemolo mischiato al tabulè, pomodori, melanzane, hummus di fave e di ceci con la tahina, cetrioli, peperoni e cavolfiori tinti con lo zafferano, riso dai chicchi minutissimi, mandorle, aglio, cipolla cruda in quantità industriale e anche falafel e harissa. Mentre torno all’HJ una gran carosello di jeep militari si dipana lungo il Viale del Papa, mentre ragazzini arabi corrono ovunque, gridando tra i cassonetti e i corrugati di PVC che finiscono nel nulla. Ebany dirà : “accidenti, un attacco degli Ajatzbollah, fantastico”; Ivory ci guarda e sentenzia: “io stasera mi sposto a Eilat, me ne vado al Mare”. Secondo Ebany, Eilat è come Jesolo. Il Mercato di Nazrath è restauratissimo, anche troppo, ed è motivo di orgoglio del Sindaco: biglietto da visita, faticosamente conquistato dopo gli accordi di Oslo del 1992 e con l’aiuto del Jubilee, per essere accettati nello Stato d’Israele in cui questa città, come altre verso il Golan, non è ben voluta per la sua anima araba, povera, cristiana. Al mercato di Nazrath  ci andrò ogni mattina inesorabilmente, tra i miei arabi a controllare le merci in vendita: le olive, il pesce, le cuccume da caffè alla turca, i colapasta di alluminio, le gonne in puro velluto sintetico, le mezze vacche, il pane (arabo) che arriva alle botteghe dentro le carrozzelle dei bambini, in carretti scoperti, senza nessun involucro, carta, sacchetto. Profumo di cardamomo diffuso. Immancabile una sosta al civico 181, ormai legata alle mie ciotole di colore. Oltre al Mercato ripulito, visiteremo un secondo Progetto per la Nazaret futura, turistica: il villaggio del Monte del Precipizio, vero-falso paese arabo con 2000 stanze alberghiere in bianche casette tra gli ulivi, per soggiorni spirituali, un occhio mistico a Tabor e Jezreel e l’altro al dio denaro. Mi dico: It’z all comerz, Izabel!! Ma non voglio urtare la speranza di Nazareth di accreditarsi come tourism destinaton, se questo la “protegge”.

VERSO AL QUD, LUNGO IL GIORDANO 

Alla fine Ivory non se n’è andato da solo a Eilat:  acconsente a portarci con la sua macchina a nolo, fino a Gerusalemme. Purché non facciamo soste. Uno “strappo” lungo la Valle del Giordano, paesaggio meraviglioso che non riesco a fotografare, dai finestrini. Non fosse per l’impressionante dipanarsi di filo spinato che marca le distanze (non solo sentimentali), segna i territori, ricorda dove siamo. L’atmosfera è rarefatta: sembra che nell’aria sia stata nebulizzata una qualche spezia gialla, curcuma o zenzero: come se il colore e la materia delle dune indurite, quasi deserto, e l’azzurro polvere delle colline più lontane si fossero mescolati in una zahatar aerea.  Sulla mia destra, il paesaggio si anima qualche volta dei cavallini o asinelli su cui ci sono ragazzini arabi, tutte le tonalità dell’ocra, le terre che non sono solo di Siena, i grigi degradanti al bluastro.

FOLGORATA ALLA PORTA DI DAMASCO

Entriamo in Jerusalem El Qud da Est, i quartieri arabi. Molti chilometri in una sequela monotona di botteghe squallidissime, quarti di bestie appese nella polvere della strada, cassette di verdura vicino ai lubrificanti dei garages, un grande brulichio di persone, arabi, che si muovono ai lati o in mezzo alla strada, automobili molto molto scassate che si fermano, fanno salire e scendere qualcuno, ripartono, accostano, sostano. Lontano, a destra, le colline di Jerusalem, verdi, sembrano un miraggio: ne hanno la luce ferma, sacrale, a noi che attraversiamo la polvere che non è più speziata come lungo il Giordano. Ivory protesta, dove cazzo mi avete portato e anche Ebany ammette che vedrebbe volentieri un militare israeli, quando servono non ci sono mai. Non ci succede proprio niente di niente e, intatti, approdiamo alla Porta di Damasco che appare (di apparizione si tratta) in mezzo ad un traffico meridionale nel quale i vigili urbani (che qui sono armati) non fanno che partecipare, forse aumentandola, una confusione totale. La Porta, colore di terra ambrata, calda, speziata è la valle del Giordano che diventa città; oltre si intravedere il brulichio del suk arabo, un altro mondo, assolutamente unico. È una conversione, non necessariamente religiosa, tra chi non è ancora stato a Jerusalem e gli eletti. Calamitati nell’imbuto della città santa, camminano come se scivolassimo sul basalto lucido delle calli, gli occhi bevono ad angolo giro: l’ora è tarda e le botteghe stanno chiudendo, noi stiamo cercando l’Hostel della YMCA, per giovani maschi cattolici. Ebany mi dice, tanto tu sembri un ragazzino gay. L’impressione è che tra i molti articoli in vendita ci sono le religioni. La commistione tra fondaci dove la pitta si cuoce su piastre di metallo convesse e luoghi di culto dove figure silenziose, quasi imbalsamate, pregano i loro dei ortodossi, latini, cristiani, armeni, copti, musulmani, ebrei è davvero unica. A interrompere questo misticismo, arriva una simpatica schiera di piccoli trattori ‘da città’ che funzionano per spazzare queste calli a gradini, impercorribili da mezzi normali: si arrampicano con le ruote motrici, con una velocità inquietante: nel contenitore hanno i sacchi di immondizia, azzurri, che raccolgono al volo dalle porte delle botteghe. Giovanissimi arabi salgono e scendono in corsa provvedendo alla funzione: in pochissimi minuti la città-mercato resta linda come un salottino svizzero, niente per terra, niente sugli usci, solo il biancore dei masegni stradali, che ricordano Dubrovnik.

MURO E MOSCHEA

L’ultima mattina, prima di tornare a Tel Aviv per partire, vediamo i Luoghi di prammatica: il Muro, il Monte dei Templi, il Santo Sepolcro. Mi impressiona il piazzale del Muro, dove c’è un gran viavai di figure, perlopiù maschili ma con abiti femminili. Lunghi mantelli, abiti conici marrone scuro o decisamente nero, cappelli delle più insolite fogge: trecce di panno da cui emergono punte da strega, cappucci con trecce di stoffa che scendono sulle spalle, cuffiette ricamate con sottogola, colbacchi e berrette di pelliccia, tube e feltri a larga tesa. Rarissime figure bianche contrastano la prevalenza dello scuro: qualche bordo ricamato, di tipo balcanico, forse russo. Noto dei buffissimi tavolini a rotelle, quattro gambe altissime come fossero destinati a giraffe, un ripiano quadrato e forse dei cassetti. Intorno si radunano gruppetti di uomini, perlopiù ebrei ortodossi ma non solo, che bevono da minuscoli bicchierini di vetro ambrato o trasparente una bevanda che proviene  da bottiglie scure, posate sui tavolini. Tra le bottiglie e i bicchieri, che nessuno lava, ci sono candeline accese, appiccicate al piano con la loro cera. Ci sono anche dei libri, sul tavolo, delle bibbie; forse gli uomini parlano fra loro o pregano. Entriamo nel recinto dei templi, di suggestione totale, dalla parte cristiana si ascende a quella mussulmana, la grande Moschea della pietra, da cui Maometto salì in cielo a cavallo. Il cuore del cuore di Jerusalem, è stupendo: cortile mediterraneo (con il bianco della pietra e il verde degli ulivi), recinto sacro dei muslims (mosaici azzurri e cupole dorate, file di scarpe, fontane e tappeti), calli delle città mercato turche e delle banchine dalmate (archi, portici, panchine di pietra, porte finestre per esporre le merci), giardino pensile Andaluso (aiuole di erbe speziate, giardinieri arabi, cabalette d’acqua), reminiscenze veneziane (edicole, tempietti, pulpiti). Quando hai finito di guardare, torni a respirare: un colpo d’occhio che è un coup de foudre, un colpo al cuore, un segno nella vita. Gerusalemme è la città dove tocchi il concetto di religione, qualunque declinazione prenda, ciascuna a proprio modo. Sei immerso, nel liquor religioso, che ti isola dai mali terreni. Dalla terrazza del mondo ci inabissiamo per cortili interni, scale, corridoi, balconi più piccoli con sedie per una sosta di preghiera. Attraversiamo una chiesa copta, due ‘frati’ hanno cuffiette ricamate nei toni del cacao; usciamo nella città vecchia, in mezzo alle pitte che si cucinano sulle piastre, ai caffè, al viavai domenicale. A conferma che la religione, qui, è un cibo quotidiano, integrato con gli altri. Geniale, la città santa. 

Gerusalemme è la città dove tocchi il concetto di religione, qualunque declinazione prenda, ciascuna a proprio modo. Sei immerso, nel liquor religioso, che ti isola dai mali terreni. 

SANTO SEPOLCRO

Veloci, come turisti giapponesi, attraversiamo il cardo, penetriamo nei quartieri armeni o di chissà quale declinazione etnica e religiosa, passiamo porte di conventi, di ostelli crociati, di cortili, scale, terrazze. Eccoci al Santo Sepolcro. Si entra e subito lì, per terra, c’è l’oggetto: la pietra tombale o una sua riproduzione, tant’è lo stesso. Come il Muro, i fedeli la toccano, pregano, piangono. L’architettura e l’atmosfera sono quelli di S. Marco a Venezia, più fumoso e più trafficato, parimenti bizantino nella complicanza della pianta, degli alzati: portici, ballatoi, nicchie, scale, cappelle, volte, voltini, lumi dappertutto, mosaici, icone. Un guazzabuglio di travolgente misticismo: l’angolo del cristianesimo dentro l’emporio delle religioni. La casupola costruita attorno al legno originale del sepolcro, è decrepita per vecchiezza e consumo, ha la sua bella coda di visitatori: risento il Sindaco di Nazareth che mi dice, Izabel, we have the fact.  Attraverso una serie di scale interne, nella chiesolina di chissà quale religione un bisbiglio inquietante e discontinuo rivela dei fedeli, acquattati negli angoli, avviluppati in sudari neri che lasciano intravedere il bianco degli occhi, fissi, quasi invasati. C’è anche una figura in sudario bianco, quasi una mummia, seduta in un banco sospira, sussurra, ha un verso quasi animale di remoto lamento. Irreale e pregnante. Infine, per fortuna, siamo all’aperto nelle calli a scalini, riprendiamo a respirare, come dopo una apnea nel Mistico. Torniamo all’YMCA attraverso il quartiere degli ebrei ortodossi, dove non si dovrebbe andare da turisti:  Attention. This is a residential area NOT A TOURISTIC SITE:  figurine nere, col cappello e le treccine da bambole polverose

Compriamo una specie di strudel al cioccolato, buonissimo e sbocconcellando dal sacchetto di carta  decidiamo di prenderci un caffè nell’albergo dell’Ambasciata USA, un vecchio edificio arabico, con uno splendido cortile interno, tra alberi di arancio carichi di frutti. Oltre a noi c’è una coppia che parla americano: ci sembra di conoscerli ed Ebany decide che lui è un regista famoso, forse Altman. Come in ogni caffè che si rispetti oltre al cameriere ossequioso in giacca bianca, c’è un tizio che strimpella il pianoforte e i quotidiani internazionali con il loro bastone antifurto per appenderli. Mentre aspettiamo lo shuttle per l’Aeroporto Ben Gurion, bambini arabi escono da una scuola e si divertono come pazzi a saltare dentro una enorme pozzanghera:  hanno i loro zainetti Invicta e le loro scarpe Nike, come in ogni parte del mondo. I militari israeli si accaniscono a controllare le Carte di Identificazione ID: io sono indignata, ma Ebany mi raccomanda lascia stare, sono armatiYehoshua dice che gli ebrei hanno sempre la febbre: c’è uno status permanente di allerta, di anticorpi in azione, sia mai.