MIDLANDS RELOADED
MANCHESTER, LIVERPOOL, BIRMINGHAM, SHEFFIELD
Con il Girolo Lyon surprise vi ho introdotti ai miei viaggi AUDIS con Marina. Nel 2006 la meta erano le Midlands, terre di mezzo nella penisola britannica, il ventre dove ebbe gestazione la Rivoluzione Industriale e dove, alla fine del Secolo XX, si è dovuto mettere mano ad un recupero urbano straordinario. Non vi tedio con aspetti storici, urbanistici o sociali, anche se per quanti vogliano capire che cosa significa la fine di un modello di sviluppo e la manutenzione dell’Heritage (il patrimonio ereditato, non solo materiale), una visita a pier, quay, wharf e docks delle Midlands è basilare. Le nostre tappe, oltre a Manchester, sono state Liverpool, Sheffield, Birmingham, Ironbridge sul fiume Severn e New Brighton sul Merseyside. A distanza di 17 anni, solo le fotografie salvano molte cose dall’oblio: l’esperienza, viva come allora, è solo quella del MOSI di Manchester un museo della scienza e dell’industria come dovrebbe essere fatto. Non c’è Brick Lane (Girolo Londra 2009) che tenga di fronte alle Midlands dove i mattoni imperano ovunque, nelle grandi enclave manifatturiere, nei magazzini portuali, nelle fornaci, nei tenements, ma anche nelle cattedrali, nelle town hall, nelle dimore padronali, nei cottage, nei grandi magazzini e nelle stazioni dei treni. Il rinnovo urbano si concentra soprattutto lungo i canali, un tempo industriali e commerciali ora destinati alle residenze e al tempo libero: New Islington, Rope Walk, Castlefield, Salford, Pier Head, Royal Quays, Victoria Quays, Ancoats, Rochdale, Ashton, Kelham Island, e via così. Le città, nel loro complesso sono un melting pot straordinario di old english, heritage industriale, high street, interventi da archistar, depot e cottage, musei, teatri e urban center, chiese e cimiteri “in the field”, oasi di prato in mezzo al costruito. Tutto insieme, tutto che cambia. Mentre i colleghi britannici ci illustravano progetti del nuovo Millennio, io mi perdevo ad osservare le ceramiche di William Morris sul mantelpiece. God save the UK.
ALLA SCOPERTA DI:
RINNOVO URBANO STILE INGLESE
Dormivamo a Manchester, dalle parti di Bridge street. Ricordo solo un Cafè Istanbul, lì vicino, dove cenammo una sera, forse con pietanze turche, perché gli Inglesi, si sa, non danno il meglio di sé in cucina (per una parziale rettifica, vedi Giroli Londra). Ricordo buone birre, in specie a Birmingham, vicino alla Cattedrale St.Philips (vetrate di Burne-Jones), ma risalgono ad un girolo postumo del 2011, rientrando dal Wales (Girolo Great Orme). Non pretendo di farvi girolare per i diversi quartieri in via di rinnovo: cantieri per lo più in corso nel 2006, con orizzonte 2008 e seguenti; vi erano impegnati grandi studi di architettura alsoparchitects.com, grandissime imprese immobiliari urbanspalsh.com, investitori globali, agenzie di promozione e comunicazione internazionale. La cura che questi progetti di recupero mettevano nel comunicarsi era impressionante: più dell’oggetto, colpiva la sua narrazione, lo storytelling: nei Chips a New Islington, pareva vendessero un villaggio su Marte. Attorno ai Quay di Salford, vecchia zona portuale, spiccano vessilli di stile: il Lyric Theatre denominato The Lowry (dal nome del pittore nativo) e il Museo dell’Imperial War IWMN di Liebeskid, sulla sponda di Tralford. Due landmark capaci di simboleggiare tutta Manchester, ancora di più della sua icona ottocentesca, i quay e le fabbriche di Castlefield (dove sta il MOSI). Ci regalarono delle matite (lapis), la cui mina era prodotta riciclando tazzine di ceramica (storica produzione delle Midlands) this pencil used to be a cup. Molto pensato, molto riciclato, tutto rivenduto, più di tutto raccontato.
MANCHESTER
Finite le nostre visite ai quartieri rinnovati, si poteva girolare la sera in centro, dove pure c’erano segni tangibili di una rejuvenation, anche sociale: Canal Road (il canale di Rochdale che entrava in centro) era un distretto di tendenza, con ininterrotta fila di locali per aperitivi e cene informali, lungo i quay ripuliti. Raggiungendo la storica Market Street e la Cattedrale, si trovava un nuovissimo Museo Urbis, tutto scintillante di vetro a rinnovare una piazza con tre lati di anonimo stile britannico, in mattoni scuriti. C’era anche una grande ruota panoramica (una London Eye minore) dalla quale si poteva ammirare (?!) la conurbazione di Manchester, un melting pot di epoche, stili, assenza di stili, rinnovi, degrado. La vicenda di Urbis è emblematica: nato come parte di una gigantesca operazione urbana, Millennium Quarter, non ebbe lo sperato successo come luogo espositivo d’avanguardia. Dal 2002 al 2006 provarono con una serie di exhibition sulla cultura pop inglese, tipo Sex Pistols, sul design e l’ambiente. Le cose andarono meno peggio, ma non bene e nel 2010 Urbis chiude. Riapre nel 2012 come Museo Nazionale del Football (guardate la storia in Wikipedia e per l’edificio simpsonhaugh.com architetti locali con un portfolio progetti notevole). Il MOSI a Castlefield, invece, è rimasto attivo, nelle vecchie strutture perfettamente recuperate dentro la cittadella industriale, ricca di nuovi appartamenti e di appartamenti ricavati da vecchi barconi da trasporto (come a Londra, a Copenhagen, a Rotterdam). Il MOSI mi piacque tantissimo, raccontava la storia della manifattura, soprattutto tessile con macchinari, materiali, fotografie, possibilità di esperienze dal vivo. Mi piacque che fosse pieno zeppo di famiglie (credo fosse gratuito) con bambini che giocavano, sperimentavano, imparavano e genitori tranquilli che lasciavano fare. Alcuni particolari delle ricostruzioni e ambientazioni dimostravano una cura didattica eccezionale, tipicamente inglese. Riporto il testo di una targhetta sulla influenza dell’industria chimica rispetto alla natura, datata 1870!
A large quantity of acid vapour is
delivered into the atmosphere at these
works the leaves on the trees had in fact
the appearence of having been
destroyed by chemical reaction
CANALI FIUMI MARE
Con un bus privato ci spostavamo da Manchester verso altre cittadine della rivoluzione industriale, altri porti commerciali più e meno desueti: in tutte, il sistema di canali che un tempo veniva utilizzato per le merci, è stato recuperato e le imbarcazioni adibite a locali o abitazioni; di tanto in tanto si assiste alla messa in funzione delle chiuse, da parte di abitanti-navigatori, che scendono ad aprire e chiudere e si danno una mano se si incrociano nel due sensi. Ci sono abitanti giovani, dal look alternativo, e coppie in età, che hanno forse cambiato vita dopo la pensione (di solito gli Inglesi vanno alle Canarie, ma). Lungo il fiume Severn, fuori Birmingham, facemmo sosta al primo iron bridge del tempo in cui anche gli orinatoi pubblici erano occasione di sfoggio delle tecniche cast iron (venivano chiamati Temple of Relief, meraviglioso!). Ironbridge Gorge è una destinazione turistica, ovviamente, isolata tra colline boscose, tra campagne infinite dove sono ancora evidenti i dry stone walls, icona della campagna inglese e irlandese, come le mucche al pascolo. Nel Jackfield Tile Museum ho comperato due ciotole artigianali blu. Di Liverpool ricordo appena l’Albert Dock, con le sue colonne rosso pompeiano, il Museo dei Beatles e una sede di Tate, entrambi disertati. Nelle foto scopro una Pump Tower Inn (peccato non essere entrata) e i Granada Studios. Ben chiaro invece il ricordo del Mersey, il fiume che accoglie la città come in un mestolo e funziona da porto canale, per molta della propria lunghezza. La stazione balneare che si chiama New Brighton vanta edifici d’antan: un faro, una pagoda liberty in ferro battuto e un teatro Decò, in desolante abbandono. Dalla sponda opposta del Mersey c’è Crosby Beach, con le statue di Gormley, Another Place. Là dove c’erano attività portuali sul Mersey, adesso c’è una laguna-parco piena di famiglie a passeggio; in prospettiva si vedono teorie di gabbiani a riposo e cottage di recente costruzione, a schiera come gli uccelli. A ridosso della Stazione di Liverpool abbiamo visitato un’area industriale dismessa, gigantesca, in fervente rinnovo. L’acqua entra in città dai canali che sono serviti all’industria. Nei recenti recuperi edifici di mattoni, vecchie fabbriche o warehouse e nuovi appartamenti, si specchiano in acque non ancora limpide, insieme a barche da lavoro: una tavolozza impastata, di rossi, gialli e verdi, dove non manca l’effetto brillio che fa l’acqua all’apertura delle chiuse e l’effetto oleoso da inquinamento residuo. Colori sfacciati anche dentro il Lyric Theatre di Salford, nelle mie sciarpe indosso a Marina, negli autoscatti che ci facciamo, usando i mirror wall. Ci vuole colore, come antidoto al grigio della drizzle.
MELTING POT
Poche ore siamo stati a Sheffield, patria di spade e coltelli, di acciaierie in genere. Direi che di fronte alla Stazione (un rinnovo audace con i treni in vetrina) ci sia una fontana che cita lo steel con una lama sinuosa e brillante, ma potrei sbagliarmi. Anche Birmingham non ci ha ospitati a lungo: io disertai l’incontro con gli architetti e girolai un po’. Ci sono due interventi degli anni Sessanta abbastanza famosi: la torre bianca detta Rotunda e il Bull Ring, una specie di astronave di Gunther Domenig, bullonata in acciaio. Per il resto la città (la seconda per abitanti dopo Londra!) ha una zona devota alla gioielleria, comunità chiusa di orafi che dopo la crisi degli anni ‘70 ha “aperto al commercio” diventando un bazar ed è ora sottoposta a grandi progetti di rinnovo JQDT 2022-2027 jewelleryquarter.net. Ho fotografato una piazzetta insolitamente idilliaca, forse St.Paul, prati verdissimi narcisi gialli e bianchi, come in una vetrata di Morris. Lampi di memoria che non avrei, senza le foto: Sheffield, Birmingham e Liverpool li ricordo più melting pot che mai, il vecchio col nuovo, il cantiere continuo, il brutto, il meno brutto, il quasi bello, l’idillio rurale e l’architettura audace, lo shabby senza chic, il post industriale. Ma ci sono stata qualche ora e dovrei tornarci, dal vero, non solo con lo storytelling.