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MORA-MORA E AZAFADY

Ci sono due parole chiave, in Madagascarmora-mora che traduco come “piano piano: si può rimandare” e Azafady. I fady sarebbero i tabù, ciascuno ha i propri e non si dovrebbe disturbarli, mai. Azafady perciò significa “non vorrei mai toccare i tuoi tabù”: più prosaicamente “domando scusa”, se faccio una domanda o esprimo un’ipotesi che ti potrebbe urtare. Le relazioni in Madagascar sono improntate ad una cortesia riservata: l’essere troppo diretti, il prendersi confidenza non sembra un modo giusto, bisogna rispettare i reciproci fady e procedere mora-mora. Come in Uruguay, il mio è un viaggio di lavoro, insieme a due gentiluomini di Verona, ad un interprete, malgascio per via materna, che chiamerò l’Angelo (custode) e ad un Personaggio Importante, un VIP malgascio, che chiamerò JB, in onore al whisky che beve come fosse chinotto. Siamo stati chiamati, a nostre spese, per valutare possibili investimenti in produzione di vino, nelle Alte Terre del Fianàr e in villaggi turistici, lungo la costa orientale, nei dintorni di Tamatave (Toamasina). Vi ho già detto che chiamano me per le mission impossible: lungo questo tratto di Oceano Indiano ci sono due dettagli negativi, gli squali e i cicloni. Infatti, sul volo Air-Mad, che da Malpensa ci porta fino a Tanà (come i locali chiamano Antananarivo), ci sono parecchi quasi-VIP padani che stanno andando a Nosy-be (Grande isola), dalla parte opposta a Tamatave, la nuova stella del turismo internazionale, che cerca di affermarsi come le Mauritius. Corre l’anno 2005: in Italia è un gran successo per il cartone animato Madagascar, che avrà due sequel. Ma, ormai sapete, io sono bastian cuntrari: non vado nei resort di moda, vedrò 2 animali endemici addomesticati, non dormirò in raffinati eco-lodge, non farò trekking o quadding nella selva. Chilometri e chilometri in auto, sugli altopiani e lungo coste con gli squali o nei vignoble che producono vino improbabile. Sono una Girolona, non una influenced (sì, con la D finale!) Approdiamo alle nostre camere dell’Hotel de France a Tanà e veniamo adottati da JB e dal suo assistente JS: un personaggio da spy-story, formato nel KGB e nel Mossad, gira con la pistola nel cruscotto della sua Peugeot 505, l’automobile che parla: ogni poco ci fa sussultare col suo annuncio attention attention, ça voiture il fait la marche arriere! JB, invece, gira con un pick-up Toyota e ha l’autista: si ferma ovunque, deviando appena dalle routes national RN, lungo sterrati impraticabili, su ponti di barche, sulle rive dei marecages ed acquista qualunque cosa, anguille e galline vive, noci di cocco e corasol, sacchi di riso Tsipala e Makalioka, gamberetti essicati, caschi di banane, camicie Samara e jeans Deutch, birra THB. Ci rifletto solo ora: non ha mai comperato vino.

ALLA SCOPERTA DI:

LA REGINA RANAVALONA E I SAMBOSSA

Nella Capitale, visitiamo i monumenti di prammatica: i Palazzi della Regina e del Re (Sito UNESCO, ça va sans dire). Niente di speciale, azafady, non fosse per il paesaggio che si ammira dalla Rova (la piazzaforte), a 360 gradi. Non sono stata in altri paesi Africani e comunque guai dire ai malgasci che stanno in Africa, perché loro si sentono indonesiani-malesi e, dovendo scegliere, si attaccherebbero al continente Asia. A me queste visioni illimitate, edifici sparsi ovunque, terra, colline, cieli nuvolosi, luce prepotente che genera ombre forti, ricorda l’America Latina. Ma è perché ho girolato poco fuori dall’Europa e quelli sono i miei riferimenti terzomondisti. Visti i pochi edifici di fine Ottocento (ricostruiti?), di sapore decisamente asiatico, ci si perde nel panorama, che dalla Rova si gode dei mille villaggi di Tanà. I nuvoloni dell’inverno australe si muovono all’orizzonte con grande velocità, generano ombre temporalesche e luci improvvise, montagne grigie tutt’intorno, e all’interno colline, paesi, nuclei sparsi, quartieri più costruiti, il lago Anosy e lo stadio del Rugby (il Mad sta giocando contro il Kenya), la città fitta fitta più bianca e poi campagne, tratti rossi, appezzamenti ocra, terra di siena, verdi di tutte le gradazioni, boschi, pezzi di selva, risaie più grandi e più piccole, un gran marasma di altitudini, bassure, coltivazioni ed edifici. Andiamo anche alle rovine di Ambohimanga, dove spiccano, per le macchie rosse, gli alberi da fiore: il Callistemon Viminalis (il nome ci parla di ceste intrecciate) e la Delonix Regia o albero del fuoco, nonché l’Euphorbia Pulcherrima, che poi è la nostra stella di natale

Devo dirvi che la prima sera a Tanà ho assaggiato il filetto di zebù, buono; il patè alla moda francese, buonissimo; i sambossa allo stile etiope, superbi; del vino meglio non dire. Dopo la cena al Glacier, ci ammalia una straordinaria serata nel suo dancing Club, dove JB si rivela un gran ballerino, lasciando i maschi bianchi ammirati a bordo pista. In aereo avevo scoperto Erik Manana, culto della musica malgascia, ma i suonatori/cantanti del Glacier sono decisamente pop-rock e possono lasciare seduti soltanto vazaha (stranieri), stravolti dal viaggio Air-Mad. Ignoro come si possa definire il loro genere musicale: direi afro-pop o afro-dance, ma l’associazione all’Africa è tabù. Quale che sia, per mia fortuna c’è JB, che si occupa di me: moi meme et Madame (io) on va dancer. Da quel momento io sono Madama-skar.

LE ALTE TERRE DEL FIANAR

Dopo aver toccato con mano il mora-mora malgascio, con diverse ore trascorse al bar dell’Hotel de France, scivolando dal petit dejeuner all’aperitivo del pranzo e poi dal caffè del pranzo all’aperitivo della cena, tra corasol e JB, finalmente riusciamo ad “organizzare” il viaggio verso Fianarantsoa, dove dobbiamo visitare i vignoble del Grigio Coteaux d’Ambalavao. Organizzare è un vocabolo europeo, che male si adatta allo spirito malgascio, come vedremo. 500 chilometri scarsi (la distanza Venezia-Torino per capirci), ci sembreranno il giro del mondo: arriveremo stravolti all’Hotel Soafia di Fianarantsoa. Lungo la RN7 il nostro occhio di vazaha si intride di terra rossa, rarissime case rosse che emergono dal suolo come sua fisiologica prosecuzione verso il cielo. Ovunque l’orografia si infossi, lì ci sono risaie, per lo più terrazzate simili a quelle che siamo abituati ad associare ai paesi asiatici (!), con un verde lucidato. Per il resto trionfa la selva: eucalipti, ravinala, pini mughi, mimose, banani, ficus di ogni varietà. Ogni tanti chilometri un villaggio, lungo la RN7, con le case più ‘urbane’, la tipologia di Tanà e del Fianàr (etnia merino?): colonne quadrate di mattoni in facciata che funzionano da portico al piano terra e da balcone coperto al primo piano. Le case più umili, quasi capanne ad un solo piano hanno una bottega che si apre sulla N7. Un foro rettangolare funziona da banco di vendita e da vetrina, all’interno uno scaffale espone l’intero magazzino del negozio: riso, carne, ombrelli, bacinelle, infradito, polpette appena fritte, birra, frutti, tessuti, ceste, legno intagliato, latte concentrato Kaoatry, sigarette Boston, l’immancabile Tiko, lo yogurt fabbricato dal Presidente della Repubblica, Mr. Ravalomanana. Il trambusto è sommo: passano camion container, taxi-brousse collettivi, stipati fino all’esplosione, fuoristrada scassati, motociclisti, carretti carichi di merci, portatori di ceste a bilancia fatte con foglie di banano, biciclette e tantissimi pedoni. I quali, spesso scalzi, sbucano assolutamente dal nulla, non li vedi arrivare, non capisci dove spariscono.

Le Guide parlano degli spiriti hasina, che sorgono dal suolo e portano bene o male secondo come li tratti: a me pare che i popoli degli altopiani, emanino e si dissolvano come hasina, spiriti multicolori. Sugli altipiani, in luglio, fa freddo e i nativi sono ben coperti: macchie di colori nel verde della selva, un campionario di abiti occidentali dismessi, united color of Benetton. Sono anziani spesso col cappello, donne bellissime, frotte di bambini tondi, ragazzini e ragazzine già adulti di color cacao. Lo sporco sui vestiti è una manteca di polvere, terra rossa, campagna, acqua terrestre e celeste, umori corporali: molto naturale. Direi che si tratta di una fibra, intessuta con le altre. Ho letto che i malgasci utilizzano nei manufatti tessili, oltre ad una particolare seta rossa, anche materiali astrusi come conchiglie e pezzi di computer. I miei occhi notano qualche vezzo travolgente: un foulard di Hermes, una camicina di Laura Ashley; le balze di un voile misto di madreperla e polvere; un lambà (scialle) grande come una coperta, che cade sulle spalle del contadino quasi fosse cachemire di Loro Piana. Sotto questo compendio di stracci, i nativi hanno un portamento invidiabile, che riesce a combinare due opposti: il morbido e l’impettito. Altro che sfilate parigine.

Rarissime case rosse che emergono dal suolo come sua fisiologica prosecuzione verso il cielo