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  >  D'antan   >  Machaby e Kaberlaba

Come ho spiegato, la scelta del nome Girolona, deriva da mia mamma, Angiola detta Giò o Angi. Lei definiva così me, ma, come spesso accade coi figli, si rivedeva in quel ruolo ed era contenta che io avessi ereditato il cromosoma: lei aveva dovuto domarlo, per occuparsi di tre figli e del quarto bambino che era rimasto mio padre. Anche la Giò, come me, partiva, senza avere una meta ben precisa, girolava a naso. Talvolta il naso la tradiva, si smarriva in qualche bosco andando a funghi (che lei chiama urgini) e tornava a casa tutta graffiata, perché era ruzzolata in qualche fosso, tra i rovi. In età, quando è diventata Nonna Angi per le figlie di mia sorella, le facevamo la ramanzina prima che partisse, ma non serviva. Una volta, dalla zona di Limone Piemonte è sconfinata in Francia senza Carta d’Identità, ed è tornata in albergo con la Gendarmerie, quando ormai la davo per dispersa:  faceva finta di essere contrita perché io non la sgridassi troppo. I luoghi di questo Girolo, distanti nello spazio, sono uniti nel tempo: nel 1980, quando la Giò è rimasta vedova, abbiamo fatto tanti giroli insieme, mi ha portata in Montagna dove lei adorava andare, io no. Mi avrebbe poi scritto (nel 1997): vorrei essere con te come negli anni in cui potevo muovermi, come ho fatto bene!!  Sante parole di Girolona.

ALLA SCOPERTA DI:

MACHABY

“Andiamo in Val d’Aosta”, ha detto mia mamma. Io ho inghiottito un rifiuto, perché negli anni Ottanta avevo ancor un pessimo rapporto con le montagne. Andare da Biella nelle Valli aostane, coincideva per me con la nausea che mi montava in automobile, preambolo al rifiuto dello sci, che non amavo. Negli anni Sessanta, quasi tutte le domeniche, venivo imbarcata sulla Fiat della mamma e trascinata fino a Gressoney Trinitè, dove mi mettevano nella mani di un pazientissimo Maestro Vincent , che faceva quel che poteva con una gatta di marmo. Accettai, perché era estate, perché gli ultimi sci avevo tentato di bruciarli nel 1972, tra le mie manifestazioni di ribelle, quando mi ero, anche rasata i capelli come Giovanna d’Arco. Soprattutto, accettai, perché avevo chiesto ferie solo per far compagnia alla mamma, rimasta sola. E poi ero fresca di patente (presa a Venezia!) e non erano molte le persone che mi avrebbero messo in mano la propria automobile. Cuore di mamma.

In questo modo, arrivate nella bassa aostana, dopo aver passato Pont St Martin col suo severo ponte romano, la Giò mi propose di fermarci ad Arnaz: c’era una bella chiesa romanica, San Martino di Tour e si beveva del buon vino Montjovet, volendo abbinato al lardo. La Giò conosceva i miei punti deboli: mangiare, con la bocca e con gli occhi. Poi, con sorniona cautela, disse: “vuoi che andiamo fino al Vallocello di Machaby?” Sapeva che sarei stata affascinata da quel nome fiabesco. E aggiunse: è un posto dei partigiani, che passavano dal Biellese alla Valle per non farsi beccare”. Insomma riuscì a sedurmi,  giurando che ci saremmo arrivate in meno di mezz’ora e con una salita minima. Appena lasciata la macchina, prima di immergerci tra i castagni, si fermò in un orto incustodito a cogliere una mela, mentre io fotografavo un balcone con le pannocchie appese. Uscì immediatamente dalla casa la proprietaria, giustamente inviperita. La Giò fu svelta come una saetta e le disse “mia figlia stava proprio cercandola, per chiederle se potevamo comperare delle mele”. La signora reagì ancora peggio e forse minacciò di andare a prendere il forcone. Questa complicità tra me e la mamma, rese la camminata più affascinante. Arrivammo, come promesso, in poco tempo e il sito era talmente poetico che mi fece ricredere (parzialmente) su quello che si può trovare “in Montagna”.

Machaby è veramente un valloncello, una specie di sacchetto, chiuso tutto intorno da boschi. C’è una chiesolina di Notre Dame de la Niege, con curvature sei-settecentesche, un portico e qualche affresco molto compromesso. Immediatamente ci ricordò Bagneri, luogo mitico della mia infanzia e dei pic nic con le uova sode (sarà un prossimo Girolo d’antan). Nello spiazzo d’erba davanti alla chiesa, resiste una tettoia probabilmente per le cavalcature, una specie di portico arcuato (in pianta), rustico al massimo. Sono tornata, nel 2007, con Stefano mio marito, e ho ritrovato il medesimo incanto: silenzio, semplicità, raccoglimento. A qualunque cosa vogliate pensare. Le immagini sono quasi tutte del 1980 (Olympus OM10) tranne quella di me con le ortensie che è di 27 anni dopo. Giò ed io, tornate da Machaby, siamo andate al Castello di Issogne, di un ramo degli Challant: mi piacque molto, perché è più dimora che castello e dentro ci sono degli affreschi particolari, dedicati ai mestieri medioevali.

KABERLABA

A Machaby dobbiamo essere andate in estate. In pieno inverno, invece, la mamma mi chiese di andare a fare sci da fondo in Veneto. Lei, per non smentirsi, arrivò a Venezia in treno, portando i propri sci da Biella, in una apposita, elegante, custodia con manici. Per pura combinazione si fece aiutare a trasportarli da Santa Lucia fino a Dorsoduro, dove abitavo, da un mio collega conosciuto in treno. Era moderatamente intraprendente, la Giò, e non disdegnava i cavalier serventi, come li chiamava, anche occasionali. In alcune vacanze, anzi, eleggeva qualcuno degli amici a fido scudiero, per tutto il soggiorno, come avvenne in Sardegna, a San Teodoro e in Costa Paradiso. Il fido scudiero aveva incombenze elevate, come scortarla nei suoi Giroli lungo la costa, nelle sue colazioni al bar, a Messa; ma svolgeva anche ruoli logistici di non minore rilevanza, come l’acquisto dei ghiaccioli, la spinatura del pesce per la zuppa ed il conferimento dei rifiuti differenziati.

Da Dorsoduro, raggiungemmo l’Altopiano di Asiago, con la mia vettura, che al tempo era una Ford Fiesta S: la lettera S veniva da me interpretata come Sfiga, poiché ogni volta che la rilevavo, al parcheggio scoperto dell’Isola del Tronchetto, aveva qualche guasto e non voleva saperne di partire. Anche per andare in Asiago dovemmo far venire un Elettrauto con i cavi per la batteria.

Avevo prenotato, tramite agenzia, una Pensione Baitina, in località Kaberlaba: tutto alla cieca, perché di Montagna, anche veneta, e di sci non ne sapevo né volevo sapere nulla. Dal 1972 al 1980 ero stata soltanto in Cansiglio e al Lago di Carezza, portata come un pacco da amici veneziani, sottraendomi ad ogni attività che non fosse cucinare o chiacchierare. Mio fratello Mau (il figlio prediletto della Giò) mi aveva comunque regalato un meraviglioso paio di sci da fondo, di legno, fatti a mano, nella speranza mai sopita che un giorno decidessi di tornare sulla retta via degli sport. La mamma ed io partimmo, dotate di tutto punto, alla ventura.

I ricordi sarebbero molto vaghi, se non ci fossero le immagini: che poi vennero stampate in mille riproduzioni, raccolte in un prezioso Album della Legatoria Piazzesi di Venezia, esibite a parenti ed amici. Così so che c’era tanta neve, a Kaberlaba, che rendeva il paesaggio davvero fiabesco, a perdita d’occhio. Una apertura notevole, che mi pare sia la caratteristica dell’Altopiano, detto dei 7 Comuni. So che da sopra Gallio, si riesce a vedere la Laguna.

Facemmo davvero sci da fondo (o qualcosa che gli assomigliava), come si vede dagli scatti in cui la Giò è in attività, oppure si porta a spalle zaino e sci, per raggiungere le piste, con intatta disinvoltura, come nelle fotografie del 1940, a Salice d’Ulzio. Io, ricordo che le arrancavo dietro, senza allenamento e senza voglia. Senza mai appassionarmi, se non alle inquadrature fotografiche. Mi piacevano soprattutto i covoni di paglia e le case quasi austriache, dipinte di giallo.

Sono tornata ad Asiago, a maggio del 2020, quando si poteva viaggiare in luoghi fuori dal Comune.

Ho realizzato che, con la Giò, non avevamo frequentato il centro: forse la sera eravamo spossate da tutto lo sci che facevamo (!) e poi stavamo a pensione e quindi cenavamo in albergo. Kaberlaba è veramente incantevole, anche senza neve. Gobbe dolcissime e verdi, sullo sfondo montagne grigio azzurre e poi mucche al pascolo, qualche casa rurale e file di pini scuri. La prossima volta che vengo mi fermo a pranzo qui, a godermi i prati. Tornando, attraverso alcuni dei 7 Comuni (forse è la strada che scende a Canove, Cesana e Rotzo): vengo folgorata da grappoli rigogliosi di fiori gialli, che cascano dagli alberi. Scopro, grazie al Wifi del cellulare, che sono dei maggiociondoli  e benché avvisata che sono velenosissimi, mi fermo e ne raccolgo qualche ramo: ecco perché con me porto sempre guanti e cesoie da giardiniere.

Rientrando da questo Girolo ho la sensazione di aver fatto visita a mia mamma. Siamo state qui insieme, ma soprattutto è lei che mi ha insegnato a raccogliere i fiori e a portarmi a casa un souvenir en nature.

Le ciliege, invece, preferisco acquistarle: temo le proprietarie col forcone.