LONDRA 2009
IL TAMIGI
Nel 2009 ero a Guilford, con Stefania B., per il Progetto UE denominato People: si occupava di rendere friendly le tecnologie informatiche per gli anziani (medicina, soccorso, burocrazia). Elisabetta II aveva 83 anni, cominciava, regalmente ad invecchiare; il Regno Unito era ancora nell’Unione Europea. Io conclusi il mio viaggio da sola a Londra, Russell Hotel a Bloomsbury. La visitavo dopo 22 anni, cambiata molto io, ma anche Lei. Oltre a tornare sul luogo dello scatto (le mie foto del 1987, con la Olympus OM-10, Girolo Londra 1) seguii due must: le Rive del Tamigi e le nuove icone di architettura: Norman Foster, Millennium Bridge, The Dome, London Eye, Tate Modern, Docks, Cantiere per le Olimpiadi. Era un ottobre magnifico e la luce lungo il fiume rese quei giroli strepitosi, lontanissimi da ogni fumo di Londra e drizzle. L’ammiraglio Nelson che guarda i nuovi Embankments, fissa incredulo un orizzonte terso, come vedesse fino al Mediterraneo. Fu un insieme di magie a decidere che, l’estate successiva, avrei preso casa a Londra e ci saremmo vissuti un mese, Stefano ed io (Girolo Londra 3).
ALLA SCOPERTA DI:
Arrivai a Londra col treno da Tunbridge Wells, centro termale delizioso, attraversando la periferia di Nine Elms: la Battersea Power Station, quella sulla copertina di Animals dei Pink Floyd, mi apparve surreale con le sue torri-colonne bianche. Poi presi ogni mezzo possibile, inclusa la DLR di superficie per arrivare al Millennium Dome e girolai indomita lungo i nuovi Docks: le vecchie banchine del Porto di Londra, St. Katherine, Canary, Canadian Wharf, Isle of Dogs. Avevo studiato che quell’investimento gigantesco era in parte fallito e, in effetti, c’era molto lusso vuoto. Locali troppo trendy, appartamenti troppo glamour, banks e light trains troppo deserti. Quasi all’opposto (sulla mappa) scoprii per caso una Little Venice (appena fuori dal lusso di Maida Vale): uno dei molti Canali interni della Londra commerciale, scomparsa. Chiuse in funzione, barconi da lavoro trasformati in abitazioni, pub quasi rurali, giardini all’inglese, idilli alternati a squallore suburbano, una specialità UK. Le fotografie venivano bene da sole, per via del clima e dei contrasti. Erano belle anche quelle che non avevo mai fatto, temendo le cartoline, come il Parlamento. Affrontai persino Greenwich, girolai nelle architetture suggerite nella Guida (Lonely Planet), mi lasciai incantare dal Queen Palace di Inigo Jones che ha saputo copiare dagli Italiani. Naturalmente andai alla Tate Modern (bella) e persino St. Paul, che avevo snobbato nel 1987, mi sembrò fascinosa, come fondale del Millennium Bridge, contrasto tra i campanili di Sir Wren e l’acciaio di Sir Foster. Scoprii Southwark, la Cattedrale gotica e il Borough Market, dove mangiai ostriche buone come quelle Bretoni, servite all’impronta da un caraibico. Non distante, sempre affacciata al Tamigi, la nuova City Hall, di Foster: un panettone di cristallo, leggermente schiacciato da una parte. Passai vicino al Globe, il tempio di Shakespeare, perfettamente ricostruito. Londra, mi parve, si era “rifatta il trucco” con giganteschi investimenti, forse non tutti di successo, ma lo furono ai miei occhi: il mio Millennium eye di Girolona era in moto.
MASTERS OF ARCHITECTURE
Erano gli anni delle Archistar: Barcellona, Bilbao, Berlino, Valencia, Manchester, Stoccarda ogni girolo in Europa, proponeva anche ai profani assoluti di architettura, i nuovi segni urbani, i landmark. Adoro Sir Foster e in traccia del suo iconico Cetriolo, trovai oltre a lui, molti cantieri ancora aperti. Mi impressionò la dimensione di quello a King’s Cross-St. Pancras, da dove gli Eurostar avrebbero raggiunto il Continente passando nel Tunnel sotto la Manica, prima della Brexit. Dentro, la Stazione era già riforbita e scintillante, le ingegnerie metalliche riportate in splendore, negozi da sballo. Fuori, sotto le gru, eserciti di operai edili, imbracature, caschetti, tute arancioni, pelle di ogni colore si muovevano come un termitaio, dietro teloni illustrati a fumetti e tra cassoni per detriti trasformati in orti urbani. Mi innamorai del Gymnasium tedesco, restauro impeccabile, luogo magico, dove la Rigenerazione Urbana metteva in mostra se stessa. Il mio Hotel Russell era adiacente ad un intervento già terminato, Brunswick, che sembrava ignorare la contiguità con Bloomsbury e il British e aveva l’aria di un luogo residenziale “normale”. Andavo a far spesa da Waitrose, chiacchierando con le commesse, nel reciproco linguaggio non nativo. Tra le gigantesche trasformazioni della Capitale c’era proprio questa: una popolazione di lavoratori, arrivata dal Mondo, che avrebbe generato il risentimento della Brexit. Anche le cattedrali dell’arte non nativa, si erano riforbiti alla grande: la Grand Court del British, la travolgente food court della National, sempre generosa di nuove acquisizioni. Sulle pagine della Lonely ho annotato: Diana e Atteone di Titian e Le Bagnanti di Cézanne; Ken Howard. E poi i soliti Veronese, Lotto, Bellini, Jacopo da Bassano; Daddi, Michelangelo, Raffaello. Veneti e Italiani, non nativi. A Brunswick, scoprii un bel edificio Decò, mescolato alla tipica edilizia di mattoni, le scale esterne antincendio, i portoncini colorati; la celebre LSE (London School of Economic) aveva una porta celeste e i suoi studenti popolavano le happy hours dei locali verso Soho e Fitzrovia. Vicino ai ristoranti della catena Carluccio’s, resistevano pittoresche Tea Room da campagna, dove sarebbero andate le Donne Eccellenti di Barbara Pym; alla Public Library di quartiere trovai un sacco di materiale sugli indicatori di qualità urbana (tema di cui mi occupavo). Credo sia stato quell’assaggio di vita metropolitana, normale, a decidere che dovevo vivere a Londra, per un po’.
La Rigenerazione Urbana metteva in mostra se stessa
LUOGHI COMUNI
Dopo aver visto 4 volte il film Notting Hill, nel 2009 decido sia ora di spingermi fin là e per estensione a Portobello Rd. Le case e le porte sono quelle da cui esce Julia Roberts, ma il Mercato non è più quello degli anni Ottanta (me lo sono persa) e men che meno trovo l’atmosfera alternativa e dissacrante, dei tempi in cui a Londra “si doveva venire”. Portobello è un gran mesclùn di qualunque cosa, pop, shabby o trendy: molta animazione, non particolarmente affascinante anche se verace. Ogni luogo ha le sue stagioni: nel Millennium, a Londra, fanno tendenza i Mercati etnici, dove le popolazioni non native, magari immigrate da decenni o addirittura nate qui ma da una sola generazione, hanno portato alimenti, colori e soprattutto odori dal Mondo. Arrivo fino a Brick Lane, l’enclave bangla, dove lo street food greve di coriandolo e curry, coabita con le migliori bagel kosher, ripiene di crema fresca e salmone. Spitafield è più in centro, se Londra ha un centro: mi piace, mescola etnico e british, soddisfacendo una fauna di “lavoratori in pausa pranzo”; sono ancora dressed up come nel 1987, qualcuno persino in gessato, ma hanno decisamente un mood meno compassato e ci sono molte più donne. La world class vera e propria, i giovani ricchi, colti, uguali in ogni capitale li trovo coagulati in Sloane: non per niente li chiamano Sloane Rangers, sono devoti all’Organic Food, al Botanic Gin e girano in bicicletta pieghevole o monopattino. Assisto ad una festa di compleanno, per la quale hanno noleggiato un BUS rosso a due piani; gli outfit non smentiscono il gusto UK: tulle verde bile, sandali tacco 12 portati coi gambaletti, fiocchi da pacco-dono al fondo di schiene con le efelidi. Potreste pensare che nel 2009, sia rimasta a Londra un mese: invece ci ho dormito tre notti e devo aver girolato una media di 30 miglia per day, col sistema che avevo cominciato ad usare, salire su un mezzo pubblico e andare al capolinea, senza chiedermi dove fosse (Girolo Tallin). Ma ho girolato tantissimo anche piedi, con implacabile determinazione (avevo delle Miss Sixty scamosciate comode come guanti): ancora fino lì e poi, perché no, fino là e ritorno, aggrappandomi alla mia Digitale compatta. La sera mi schiantavo sul single bed del Russell e avrei saltato la cena, non fosse stato per le confezioni di potato salad & chives comprate dalle amiche di Waitrose. Mi piace moltissimo fermarmi a caso in pub, tavern, Pizza Hut, tea room, etnici, catene come Giraffe o Pret a manger; quasi mai ristoranti perché raramente valgono il prezzo. Pret mi colpì per la comunicazione graficamente distinta ed eticamente orientata. I nostri cibi rispettano l’ambiente, sono freschi di giornata e i nostri dipendenti sono pagati col minimo salariale; speriamo fosse anche vero. Il mio Pub preferito, dal 2009, è il Princess Louise, non lontano dalla zona dei Teatri; “in centro” se Londra ha un centro. È un vero gioiello d’epoca e dovrebbero vincolarlo, come parte del V&A. Confesso, contro ogni propensione del Bastian Cuntrari, che, nei 3 giorni del 2009, ho anche affrontato la fila per visitare Westminster Abbey e di averla trovata proprio bella: una città nella città, gotico maestoso. Altri must, come la Tower of London e i Gioielli della Regina, San Bartolomeo o i Kew Garden, devono ancora attendere, non ci siamo stati nemmeno nel 2010: c’è sempre un ottimo pretesto per tornare a Londra. A distanza di 13 anni, ricostruendo il mio shopping con l’ausilio del web, mi confermo che Londra è in trasformazione perenne: non trovo più molti dei luoghi frequentati, a parte Floris in Jermyn street, un’icona dove decisi che – a 55 anni- mi potevo ben permettere un flacone di profumo a 66 sterline. Quello che apprezzai veramente fu l’esperienza del confezionamento, da parte di una commessa che avrebbe potuto servire la Regina. Col mio inglese non nativo riuscii a dire che guardarla fare il pacchetto mi affascinava, come uno spettacolo e sarei stata lì per ore. Penso che abbia capito, oppure era abituata a sorridere al cliente: che non ha prezzo. Mi sovvenne il commesso di Bond Street, del 1987, che mi confezionò due minuscoli tubetti di tabacco da sniffo (quello mi potevo permettere), come se avessi comperato diamanti De Beers. Palesò un regale stupore: “it’s for you, Madame?!!”.