LA LIVENZA
LA LIVENZA, LA STATISTICA, IL CORBOLONE
L’ispirazione che lega questo Girolo è il fiume Livenza. Sul fatto che i fiumi siano maschi o femmine c’è un dibattito simile a quello sugli angeli, perciò lasciamo stare. Per me, sul fondo della Livenza, ondeggia, come un alga, la Statistica: a Motta di Livenza è nata una delle mie più care ex colleghe che, come il suo concittadino Corrado Gini, è una dotta statistica. A Torre di Mosto è nata un’altra amica che ha diretto la Biblioteca Istat a Roma. Sono solo coincidenze?! La frazione di Corbolone (Comune di San Stino di Livenza), ai tempi in cui lavoravo per la Provincia, aveva scatenato la mia fantasia: immaginavo che il Corbolone fosse una bestia di quelle campagne, anfibia e coperta di ispida pelliccia impermeabile, ghiotta di uva rabosella. Questo per spiegarvi il titolo strampalato.
ALLA SCOPERTA DI:
PORTOBUFFOLÈ
Parto da Nord, in territorio trevigiano e scendo verso il Mare (il solito Adriatico), senza arrivarci, là dove la sua presenza si sente anche senza vederlo. È un Amarcord quello a Portobuffolè: dei tempi in cui andavamo girolando, con la compagnia che frequentavo a Venezia: i 2 Paoli, i 2Gi, la Patti, Castellaccio, qualche volta anche il mio futuro marito con i bambini. Capitò, chissà come, di andare ad una festa a Portobuffolè, e tornammo a casa belli bevuti: io alla guida della mia Ford Fiesta, per tutti quei km con un occhio chiuso, perché con due vedevo doppio. I beati anni dell’incoscienza: non era nel nostro Destino di morire giovani, anche se cantavamo Guccini, Canzone per un’amica. 40 anni dopo, trovo Portobuffolè largamente più bella di come la ricordavo, ma forse mi era rimasto impresso soltanto il suo nome, tra i fumi della festa. In quegli anni succedeva spesso: i luoghi contavano molto meno della compagnia e i siti minori non erano ancora pienamente valorizzati negli atlanti del Turismo. Oggi, Portobuffolè è un borgo prezioso, curato il giusto, che offrirebbe molti eventi in tempi normali, come recita il Calendario, appeso alle Mura. Pranzo in una Osteria rimasta modesta, un ottimo primo di crespelle alle verdure con un bicchiere di vino rosso. Uscendo dal Borgo, incontro una grande Villa Giustinian Salice, che secondo il Catalogo Mazzotti conserva anche mirabili interni, oltre alla Chiesa e alla monumentale scalinata che conduceva alla Livenza, una “porta d’acqua” sontuosa. La Villa mi risulta essere stata un Romantik Hotel (dal 1988) e un Ristorante di lusso. Ora è chiusa, e le rose bianche cascano dal muro di cinta, sfacendosi.
MOTTA DI LIVENZA
22 giugno 2020
Tra le province di Treviso e Venezia, lungo la Livenza che va a sfociare a Caorle, c’è Motta, dove abita la mamma della mia amica statistica, icona delle Ottuagenarie sempreverdi; vederla è un inno alla vita. Il Santuario della Madonna dei Miracoli è abbastanza celebre, anche se la sua fama religiosa supera certamente quella monumentale. Non si può dire sia un brutto edificio, dicono che derivi da un disegno del Sansovino. Sono dolci le sue gobbe, sulla facciata del tardo Cinquecento e nel porticato del Settecento. Però, mi perdonino i devoti alla Madonna di Motta, io prediligo il Duomo: ugualmente cinquecentesco e ugualmente semplice, ma immerso in una situazione urbanistica che gli conferisce maggiore fascino ed alone. È collocato in una piazzetta raccolta, di edilizia minore veneta, che lo mette in risalto. Poco lontano dal centro, faccio il tris di Chiese, con quella del Cimitero, Pieve di San Giovanni, la più vecchia: ha un bel campanile a torre e dentro un affresco che mi piace, anche se non ne so nulla. C’è un San Gerolamo che tiene in palmo una pieve, mi sembra un cugino di campagna dei Gerolami dipinti da Vivarini, a Venezia: tutti con il loro inconfondibile cappello rosso e con le chiese in mano. Azzarderei che sia del Quattrocento, probabilmente antecedente l’ultimo rifacimento della chiesa stessa. Chissà.
SAN STINO E TORRE DI MOSTO
7 marzo 2021
Non sono mai sicura di correre lungo i fiumi o loro deviazioni: i bonificatori hanno fatto quello che volevano. Direi che sia lungo la Livenza che da Motta scendo verso il Mare, passando per Lorenzaga (altra chiesa graziosa quasi sull’argine): il sole fa degli strani giochi di luce sulle vigne, riflettendosi sui cavi di plastica o metallo che le costringono a crescere in filari ordinatissimi. Vedo poco Marmais, ma parecchio Maruva e anche Marsoja, una piastrellatura verde lucido, sulla quale risaltano le ombre nere degli alberi. La plastica riluce anche nelle balle di foraggio, bianca e nera, contro il verde. I meli sono già in fiore, mentre pruni e ciliegi sono indietro. A Corbolone, mi fermo, in onore all’animale che mi ero inventata: glielo devo! C’è una Chiesa di San Marco che sembra bella, ma è chiusa. Di fronte a lei sulla Livenza (ma forse è il Canale Malgher), l’infilata di alberi che si riflette in acqua è molto elegante. C’è un hotel (il Barco?), una casa molto rovinata ma fascinosa, nel cui giardino riposano due labrador, una piazza con una villa restaurata e una casa rurale rossa con un porticato insolito. Il tomtom mi fa sapere che sono in via Morer delle Anime: non posso non trovarlo fiabesco. Immagino un convegno di puri spiriti, tra i rovi di more in fiore: quale miglior fantabosco per il mio Corbolone, ghiotto di uva rabosella??!
Passando per la frazione di Tezze, scendo a Torre di Mosto, il cui nome abbina una originaria torre medievale (che difendeva Eraclea) con la nobile famiglia dei Da Mosto. Quest’ultimo paese, sono quasi certa che sia sulla Livenza, è davvero un esempio tangibile di come queste terre fossero e siano sotto il livello del mare: gli argini del fiume sono talmente alti che il paese sembra posato al fondo di un cratere e penso che se ci fosse una piena disastrosa, potrebbe finire in una palude. A questo punto lascio la terraferma ed entro nelle terre evolute, bonificate per sottrarle al Mare. Lungo un canale, che forse è il Brian (ma forse si chiama Taglio delle Valli o sono la stessa cosa?), arrivo ad una frazione di Torre, che si chiama Sant’Anna di Boccafossa (il nome dice tutto), all’incrocio di vari canali. Mi fermo per fotografare una casa disabitata con un ciliegio orientale in fiore e un limone in vaso. Approfitto della vicina Osteria per mangiare un panino con la soppressa; di fronte a me è pieno di pescatori. Il MUPE, Museo del Paesaggio, oggi è chiuso.
Poi mi perdo, come sempre mi accade in questa tessitura di argini, alzaie, ponti, chiuse e canali, e mi tocca fare avanti e indietro diverse volte, prima di raggiungere il Brian, che è la mia meta finale: percorro varie strade Provinciali (la 54, la 62, la 94) e diverse stradine strette strette in un intrico di canali: Commessera Largon, Revedoli Livenza Morta, Brian. Passato il ponte sulla chiusa, mi fermo nello spiazzo del ristorante Dal Mercantin, dove tre uomini stanno cucinando alla brace, fuori da un casone di paglia (è ancora lì, dalla mia foto del 1995!). Per fortuna ho mangiato e posso distrarmi dal profumo che emana la griglia: mi dedico a fotografare le paratoie della chiusa, ormai degradata allo stremo, ma di grande fascino. Mi piacerebbe segnalarla a Ridley Scott come ambiente di un prossimo film.
Noto in un prato dei blocchi cementizi che sembrano resti di un colonnato, ma è impossibile. Scendo dall’argine per leggere la lapide e scopro che è un residuo di Bonifica del 1877: un sito di archeologia agraria molto insolito. L’unica cosa che capisco da sola è che i reperti sono in asse col ponte della chiusa, una sua prosecuzione. Per fortuna c’è il wi-fi e posso leggere che si tratta del Sostegno del Brian un’opera a difesa delle Valli bonificate, dal montare delle maree in caso di scirocco. Quello che resta sono le basi, come plinti di colonne in un tempio greco: il tempio alla Dea Bonifica.
Le paratoie della chiusa, ormai degradata allo stremo, ma di grande fascino
Mentre fotografo, nell’obiettivo entra esattamente una immagine dal Passato, il mio: stessa foto fatta nello stesso luogo, oltre vent’anni fa (26). Le case sull’altra sponda sono state restaurate (c’è un agriturismo?) e spicca un minuscolo oratorio bianchissimo che non ricordavo, perché era grigio quasi nero. Il Turismo ha salvato qualcosa e ha tirato fuori dal nulla del Degrado ciò che si era inghiottito. C’è un cartello della Regione che riferisce di lavori in corso sulla cosiddetta Litoranea Veneta (la via navigabile che dovrebbe unire tutta la costa adriatica, dal Po alla Slovenia). Se giro le spalle al trivio di canali (e alla chiusa) i bracci della conca puntano dritto verso la mitica Idrovora del Termine, che ho visto anche da vicino, girolando intorno ad Eraclea. Anche lei era nelle mie foto del 1995, ma adesso è restaurata. Le migliori foto delle Idrovore sono quelle di Francesco Finotto, di fronte alle quali il mio obiettivo si inchina.
Torno verso Venezia, vedo qualche rete a bilancia, come nel 1995. Ormai prossima ad Altino, sulla SS14 noto che la pandemia ha ritardato la manutenzione delle rive: i canneti stanno raggiungendo altezze mai viste, superano i rami più alti degli alberi e sono costretti a piegarsi. Una cortina disordinata, confusa, che nasconde i canali, invece di orlarli come una passamaneria d’oro, da abito di cortigiana. Vi faccio notare che nella lapide del Brian, Eraclea si chiama Grisolera: le grisioe sono le cannucce palustri utilizzate un tempo in edilizia, per trattenere meglio gli intonaci. Se ne trovano quando si fanno restauri, sia a Venezia che in campagna, non solo nei muri ma anche nei solai. Tanto per insistere su queste terre, di qua dal Mare e tra i fiumi (Girolo San Gaetano).