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  >  Eumondo   >  China III

TEMPLI E PAGODE

Siamo ancora a Shanghai, nel 2010. Il Tempio buddista di Longhua Fà, strapieno di fedeli, è leggermente fuori dalla zona del Sofitel e non mi ricordo come Giovanni ed io, liberi da impegni ufficiali, ci siamo capitati per caso (girolando!). Tutti, meno noi, bruciano bastoncini di incenso, dando loro fuoco in appositi bracieri e spegnendoli, poi, in contenitori di sabbia. Li comprano subito fuori dalla Porta del Tempio, in una infilata di negozi monoprodotto, che ricordano le botteghe di fiori dei grandi Cimiteri Cattolici urbani. Le Guide dicono che Longhua Fà sia il più antico ed autentico, ma poi spiegano che l’ultima volta è stato rifatto nel XX Secolo. In ogni caso è per noi interessante visitare i 5 edifici, pieni di statue bianche di Buddha e altre divinità omologhe: mi sembrano di porcellana, ma forse è giadeite bianca, preziosissima. Assomiglia per certi versi al Tempio di Pechino (Girolo Beijing), ma per altri proprio no. Mi colpiscono soprattutto le offerte di arance, ma forse sono mele, o cachi acerbi, impilati come fossero palline per i giochi di un circo, insieme ai mille bastoncini di incenso da bruciare, che bruciano o già bruciati. C’è anche una alta Pagoda, che secondo i Cinesi richiama la Torre di Pisa (sig): adorano questo nostro monumento, proprio perché trovano una analogia che io non vedo affatto. Però, osservando i Cataloghi di tour della Cina (quella vera) ho visto il Tempio delle Tre Pagode di Dali: e sì, in qualche modo ricordano la Torre di Pisa. Nel recinto del Tempio, incrociamo anche qualche monaco in arancione o rosso tibet, completamente rasato e a piedi scalzi. Un secondo Tempio a Shanghai lo troverò, da sola, vicinissimo al Sofitel Hyland, il Jing’an Temple raccomandato dalle Guide, anche se è sicuramente rifatto più e più volte, l’ultima nel 2006 (cioè ieri). È tutto d’oro e lacche, tirato a lucido come i grattacieli che lo circondano. I contrasti delle metropoli cinesi sono implacabili, chissà come li vedono gli imperturbabili Buddha di giada. Ci sono altre divinità a me del tutto ignote, forse profeti: hanno teste calve e dorate, oppure grandi barbe nere, ghigni spaventosi, sguardi stupiti; ci sono persino divinità femminili, chissà. Alcune decorazioni rotonde, mi fanno pensare ai Biscotti della Luna, una tipicità cinese che hanno sulla superficie di pasta frolla, degli ideogrammi e all’interno mescolanze di fagioli rossi, uova e spezie. Si confezionano per la Festa della Luna o di Mezzo Autunno, tra fine settembre e ottobre: alla fine dei raccolti. Esiste una versione al tè verde, che risulta come un biscotto di giadeite, molto decorativo.

ALLA SCOPERTA DI:

CANTON GUANGZHOU

Non so nemmeno se era previsto che, prima di tornare in Italia, saremmo passati a Canton, cioè Guangzhou. La Delegazione (a ranghi ridotti) prende un volo interno Air China e si ferma poco più di 24 ore, per poi andare a Pechino: abbiamo alcune visite ufficiali e una serata all’Opera. Ho una foto con il Console Italiano e dietro di noi, oltre le vetrate, si vede un business district in cantiere, edifici dorati e blu china: a me ricorda Pechino nel 2004, il Grande Balzo edilizio e finanziario della nuova Cina. Quella sera Uto Ughi suona per noi italiani alla Opera House (quella di Zaha Hadid?!), ma io ho le caviglie massacrate dai tacchi e dai voli aerei e preferisco affidarle ad una massaggiatrice da 5 euro, in un improbabile centro a pochi passi dall’Hotel (più lontano non arriverei). Non capisco perché siamo finiti in un Holiday Inn che ha l’aria d’antan, in un quartiere sgangherato, di altri hotel e condomini affastellati e fatiscenti: forse siamo venuti all’ultimo momento e la prenotazione ha avuto qualche difficoltà. Canton è dilavata da scrosci tropicali incessanti: mi appare sporca e misera, fuori dalle finestre della mia camera e nel vicolo dei massaggi, non ho nessuna voglia di girolarla, anche se potessi. Non è molto meglio il giorno dopo, quando Cristiana mi costringe a sperimentare una Casa da Tè, nella parte coloniale Shamian Dao Isola dalla Superficie Sabbiosa, che è un immenso cantiere: era un quartiere concesso alle delegazioni straniere ed è oggi sede delle Ambasciate. Esperienza da fare, quella della Casa da Tè, ma non imperdibile. La ragazza che ci serve, abito a fiori di pesco, cortissimo e tacco 12, ci accompagna anche in bagno, non ci lascia chiudere la porta e sta lì, servizievole, lo sguardo a terra. Torniamo ad atmosfere più occidentali in un grande centro commerciale (dove compero un ottimo paio di scarpe basse) e poi in un negozio di giadeite, con un’offerta sterminata, dalle parti di Remmin Nanlu. Mi lascio incantare da un pendant, grande come il palmo della mano, riccamente traforato, con il fiore di loto portafortuna. A Canton le immense contraddizioni avvistate a Pechino (nel 2004) dilagano. Gli incisori di giada, hanno botteghe grandi quanto un banco di scuola, aperte sulle vie del centro, in mezzo a qualunque altra merce desideriate, esposta in sacchi, vasi di porcellana, di vetro e di plastica, cassette, ceste e reti; o direttamente a terra, su stracci di stoffa. Perdono gli occhi, sotto lampadine accese in pieno giorno, curvi sul banco, seduti su seggiolini precari. Poco lontano, i Rivenditori internazionali, esibiscono vetrine immacolate, luccicanti; offrono Certificati di Garanzia (chissà quanto autentici), aria condizionata, American Express platino. Le botteghe di alimentari, spezie, casalinghi e qualunque cosa potrebbero ricordare quelle degli Hutong di Pechino, anche se a Canton non si soffiano il naso in mano. Per contro, l’affresco cantonese è molto più volgare di quello pechinese: c’è una atmosfera sguaiata, colori troppo chiassosi, insegne ovunque, pare una slot machine. È un dettaglio ma, invece delle scarpe di tessuto nere o bianche che i pechinesi indossavano per fare i loro esercizi di ginnastica, nei cortili dei condomini e sui marciapiedi, vedo una marea di orribili sneakers multicolori e infradito brasiliane, come se imitando l’Occidente diventassero sciatti. Canton mi sembra la caricatura di sé stessa, una Chinatown hollywoodiana, da L’Anno del Dragone

Canton mi sembra la caricatura di sé stessa

Da sempre mecca turistica per i Cinesi, Canton è molto vicina a Macao ed Hong Kong, chissà. Di nuovo sono sicura di non essere in Cina, ma in una delle sue metropoli, tutte diverse. Forse c’è anche una differenza di etnie, tra i sino-barbari di Pechino, eredi di Mongoli e Manciù e gli Han di Canton mescolati agli africani; forse siamo già dentro la padella etnica del Sud Est asiatico, invece che nei Regni del Nord, chissà. Ho la sensazione di raccogliere una quantità eccessiva di fotogrammi e di non avere un tecnico abile come Kim Arcalli, per “montare il cinema”, farne davvero un film che racconti Qualcosa di cinese. Altra contraddizione regalata da Canton sono le poche tracce di Tempio che incontro, coloratissime ma frammentate, dentro il mesclùn delle viuzze sporche, abitazioni decadenti, negozi di Nonsisacosa, gente a piedi, in bici, coi carretti, degli ideogrammi invasivi. Non trovo nessun recinto, nessun giardino riservato, nessuna pagoda, nessuno che porti mele o incensi votivi: ma ho girolato troppo poco. Se devo salvare Canton, penso alla scoperta dei massaggi plantari: pediluvio tiepido in un catino di tè nero, brevi torsioni delle spalle e stretching della spina dorsale, seduta su un panchetto impagliato. Poi, comodamente in poltrona (anni Sessanta con un centrino sullo schienale), una lunga, sapiente, manipolazione dei piedi e delle caviglie, che ti tocca quel che si deve toccare, ti fa male per farti bene (un’ora, 5 euro). Sono uscita che volavo, troppo tardi per il violino di Ughi, peccato! Sono rimasta all’Holiday Inn a fotografare terrazze desolate e verande da suburra, orribili grattacieli dilavati che nascondono montagne dilavate, sotto il diluvio. È dilavato anche il grattacielo simbolo di Canton (la torre della TV), un cilindro di rete metallica stretto al centro, da una torsione: nonostante le sue illuminazioni  technicolor, si smarrisce nel cielo scolorito, per eccesso di inquinamento e umidità perenne. Io ho la percezione di un brulichio di panni stesi, di lamiere abbandonate, di serramenti che cadono, di tamponamenti in mattoni onde evitare crolli, di cemento rosicchiato, di piante lussureggianti che attraversano muri bucati. Incuria e degrado, nel centro di una metropoli da 6 milioni e mezzo di abitanti? Miseria, in un quartiere dove si concentrano gli hotel? Forse, semplicemente, un altro modo di vivere in un altro continente, con una diversa cultura. 

MA VA IN CINA!! 

Una delle versioni edulcorate del vaffa, a Venezia, recita così: ma va in Cina!!  Non credo che dipenda dal ricordo sempre vivo di Marco Polo, che in Cina effettivamente ci andò. Io accompagnavo Delegazioni veneziane, a tutti gli effetti commercianti, come la Famiglia di Marco Polo. Voglio chiudere questi tre Giroli ripetendo che in Cina ci vorrei davvero andare, nella Cina “vera”, disertando le sue Capitali orientali, famose e globali. Mi piacerebbe andare nelle cittadine piccole (che hanno tanti residenti quanti Milano!) e nelle Campagne dove la Rivoluzione Culturale mandava gli intellettuali in rieducazione, a svuotare le latrine. Vorrei vedere le risaie, i grandi fiumi, le montagne potenti, il Tibet, Lhasa e Urumqi, le pagode di Dali. Mai dire mai, ma forse mi devo accontentare di questi viaggi per lavoro: ho assaggiato qualcosa di cinese, un antipasto, come fossi stata in un Ristorante Cinese di Monaco di Baviera. Quando andai per la prima volta a Pechino, nel 2004, avevo il mito de La Maison de la Chine, tour operator francese che aveva un Catalogo stupendo, di viaggi fascinosi e costosissimi, che forse non mi sarei potuta permettere: e anche questa è una riflessione da fare, sulla Fortuna di aver fatto un lavoro così generoso, che pagava anche in Giroli. Oggi il TO francese è stato inglobato ne La maison du Monde, mentre l’Outgoing Italiano si è attrezzato per diverse proposte nella vera Cina. Ho viaggiato stando ferma, grazie a chinasia.it, ma non è l’unico sito, ovviamente. Sui siti cinesi-della-Cina, invece, vi metto in guardia, perché sovente fanno scattare gli antivirus e non è una battuta sul Covid-19!