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Dice il proverbio “chi trova un amico trova un tesoro”. Io dico “chi ha un’amica che ti porta in Sardegna, trova due tesori”: a me è andata così, con Cecilia, correva l’anno 1983. Siamo partite con alcuni architetti veronesi, che stavano seguendo la costruzione di un nuovo villaggio turistico in Gallura, a nord della Costa Smeralda, quasi di fronte all’arcipelago di Maddalena. Era Pasqua (inizio aprile) e non ci siamo mai tolte di dosso i giacconi a vento, col duvet. La scoperta di quella parte di Sardegna è stata per me folgorante e non solo per il Mare, nel quale non abbiamo messo nemmeno i piedi. La potenza della Natura sarda mi ha travolta, innamorata per sempre. Le fotografie, fatte con la mia amatissima Olympus OM-10, sono molto rovinate (erano diapositive) ma hanno dentro una caratura che non ho mai più saputo riprodurre e ha a che fare col sentimento che mi abitava, al di qua dell’obiettivo. I marosi del Capo Testa rendono in parte quella potenza. Le trasparenze dell’acqua di Liscia di Vacca, rendono in parte quella immersione. So, di sicuro, che non riuscirò a trasmettere l’emozione che per sempre associo ad Arzachena, la zona chiamata Monti di Mola, ma ci provo: mi scuseranno le persone molto religiose se uso la parola epifania, ma è perfetta (anche se era pasqua).

Monti di Mola è una canzone di Fabrizio De Andrè in dialetto gallurese, con il coro dei Tazenda.

Alla scoperta di:

STILE SMERALDINO

Dico subito che il territorio di Arzachena (Monti di Mola) è quello dove, negli anni Sessanta, c’è stata l’epifania della Costa Smeralda: nome commerciale inventato per insediamenti turistici inventati. Non esistevano in Gallura villaggi originari costieri, porticcioli storici, case marinare tipiche che affacciano al Mare. Infatti si è poi consolidata l’epopea degli architetti stile smeraldino (Busiri Vici, Vietti, Couelle e Simon Mossa) i quali hanno dovuto inventare tutto, perché ispirazioni locali non c’erano (a parte stazzi e nuraghe). In quel girolo siamo state anche a Porto Cervo e al Pevero, ovviamente: cinque architetti non potevano sottrarsi. Siccome eravamo fuori stagione erano luoghi in cui si poteva girolare in bella solitudine, non c’era la folla dei ricchi e nuovi ricchi; le case erano chiuse e sonnecchiavano, come animali marini a riposo, con le loro curve rosate e gli occhietti dei comignoli. Delle molte barche lussuose, a cullarsi in darsena, si sentivano solo tintinnare gli aggeggi in metallo, le vele erano ancora ben ricoverate nelle guaine. L’aria di letargo rendeva accettabile l’esibizione del lusso e faceva trionfare, anche in mezzo all’artefatto, la Natura. Perché lei è la vera padrona dell’isola, sempre e comunque, sovrumana. Gli edifici, non si può dire fossero sgradevoli, erano un gran mesclun degli stilemi mediterranei, Grecia, Spagna, Tunisia, Sud Italia, Liguria, Provenza: in arte potremmo chiamarlo pastiche o capriccio, per nobilitare. La celebre chiesa di Busiri Vici, Stella Maris, che non fotografai, richiama i Mulini di Mykonos: lo stile smeraldino è una continua citazione di altri luoghi costieri, maneggiata con abilità da “ambientisti”. A loro volta Costa Smeralda è stata imitata, in repliche senza fine, in tutti i resort del mondo. C’è una diapositiva di quel girolo 1983 in cui si vede una casa “mimetizzata nella roccia”, che si potrebbe includere nella variante nuragica: a me piaceva; piuttosto del rosa Antibes o del bianco Andalusia. Non saprei dire dove fosse, né se fosse di qualche architetto scenografo, scultore o poeta.

LO STAZZO DI ARZACHENA

Noi, invece, dormivamo in uno stazzo, i ricoveri di pastori originari della Gallura, che io sapevo cos’era grazie a Vittorini, Sardegna come un’Infanzia. Era stato affittato per gli anni del cantiere e adattato in maniera molto spartana e senza riscaldamento; era un’avventura anche farsi il caffè la mattina. Però, sotto di noi, fino al Mare c’erano soltanto macchia mediterranea, profumo di elicriso, qualche vigna anche lei molto spartana, il vento e le pecore. Un sogno.

Avevo letto che nelle terre dei Monti di Mola, dove è nata la Costa Smeralda, l’attività prima era la pastorizia, nessuno aveva mai pensato di interessarsi alla costa ed i terreni affacciati al Mare andavano in eredità alle femmine, perché non valevano niente. C’era un detto “furat chie venit dae su mare: chi abbordava le coste dell’isola, saraceno, genovese o catalano che fosse, sbarcava per predare. La vita dei sardi era nell’interno, negli allevamenti delle bestie. Poi arrivò Karim Aga Khan e Turismo fu. Vennero, a ruota, i Mentasti, i Marzotto, i Barilla, i Falck, i Donà delle Rose, nobiltà e capitani d’industria. E poi i Chiunque. Si faci lu loco pà li passatempi di li miliardari, poi arrivano gli altri. È una legge del turismo: la ruota inizia a girare, spinta da chi può scoprire e scegliere dove fare vacanza: se il posto mi piace, magari anche “me lo compro tutto” e decido di costruirmelo come voglio io, per me e gli amici. Poi l’esclusione si allenta, gli imitatori premono, gli aspiranti si moltiplicano, i pionieri si stufano e scoprono altri paradisi incontaminati. Se non proprio la massa, arriva una sua folta rappresentanza. Forse, nello stazzo dove eravamo e grazie alla stagione in cui andammo, potevamo capire ancora vagamente com’era prima, la terra di Arzachena, i Monti di Mola. Un mondo a parte. La pubblicità presentava la Costa Smeralda come “un posto non comune”, intendendo esclusivo, per gente che voleva distinguersi dalla massa. Si poteva leggere anche un altro significato, oltre a quello dei venditori di resort: un luogo veramente speciale, in sé. Una Icona. Del resto lo aveva scritto D.H. Lawrence, quello di Lady Chatterley, nel 1921: La Sardegna non assomiglia a nessun luogo, ben prima dei creativi e senza dover vendere nulla. Nel sito costasmeralda.it, leggo che per il 2021 viene proposto un “viaggio con Lawrence”. 

Quanto al clima, non ero mai stata in un luogo dove cambiasse con tanta rapidità: tempo di un caffè e la giornata scura, con nuvole ovunque che minacciavano tempesta, si trasformava in un sereno spettacolare, cieli di smalto a perdita d’occhio. Mi dissero che era tipico delle isole, ma giuro che a Burano non è così e, tutto sommato, nemmeno a Capri o a Salina. E poi, l’occhio, era sovrastato da una serie di quinte successive, a volte nitide, a volte sgranate nella lontananza: coste, boschi, alture, gobbe a saliscendi, piccole guglie, altre insenature, lagune e foci di fiumare, forse addirittura montagne; tutto nei toni del blu, del verde blu, del blu grigio, del grigio mercurio, finché non subentravano tramonti da film.

La Sardegna non assomiglia a nessun luogo

D.H. LAWRENCE

Di giorno girolavamo come matte, in automobile e poi a piedi, fino a vedere tutte le spiagge famose: Capriccioli, Liscia di Vacca, Romazzino, Baia Sardinia, Cannigione. Una più meravigliosa dell’altra e ovviamente deserte.  Ci siamo spinte fino a Porto Pollo, paradiso dei surfisti, dove tirava un vento da paura, adatto solo a loro.

LE GIGANTESSE DI CAPO TESTA

Siamo arrivate fino al Capo Testa, un promontorio mozzafiato, dove preistoriche gigantesse hanno posato le stanche ossa, all’inizio del mondo, e comunque molto prima dell’Aga Khan. Quello che hanno lasciato ha assunto un colore particolare, dal grigio del granito passa al rosa dolomitico; mare e vento hanno lavorato lungamente, rendendo alcune rocce sottili come scaglie, lame affastellate; altre sono rimaste rotonde, invitano a posarsi, come se la pietra grigia potesse essere morbida. Continuamente spruzzi di acqua si levano alti e ricadono a lavarle. Tira un vento forte, e le gigantesse grigio rosate ci accolgono, promettono quasi di essere tenere al contatto e, comunque, di ripararci. Ma diffidate! Perché un’onda più grande ed improvvisa, ricade negli incavi e ci spruzza, lasciandoci basiti. Loro, le gigantesse, sono ormai indifferenti a questi riti del Mare: sono lì da tanto tempo, prima che noi donnine minuscole e aliene venissimo a solleticarle, armate di macchine fotografiche. Dopo queste gite, rientriamo nel nostro stazzo esauste: la Natura qui ti stanca, anche se non lavori. È sovrumana ed ha sempre il sopravvento, inutile opporsi. Purtroppo lo stazzo spartano non ci conforta fino in fondo, nemmeno se ci mettiamo nelle brande vestite, sotto le coperte, con le mani strette attorno ad un mug col tè. Dobbiamo cercare delle cene calde, nei pochissimi ristoranti aperti fuori stagione, più che altro pizzerie senza pretese. Credo che arrivammo fino a Tempio Pausania, per trovare qualcosa.

A CASA DI GARIBALDI 

Decidiamo così di fare del turismo culturale e andiamo a Caprera, a visitare la Casa di Garibaldi: la foto di Cecilia, azzurra contro la porta azzurra, è una delle più care che conservo e dice che abbiamo potuto togliere i giacconi imbottiti, c’è il sole meraviglioso di inizio primavera sul mare, e nei cortili intorno fa maturare i limoni. Credo che siamo state anche in qualche paese dell’interno, oltre a Tempio, quelli che vedi all’ultimo momento, in orlo alle colline, come in un disegnino di Chagall . Non ricordo dove, forse Dorgali, o forse Oliena. Invece mi ricordo bene la visione del Monte Albo, che ci è apparso davvero bianchissimo ed inatteso, in mezzo al verde cupo dei boschi interni. Così ho capito che esiste anche una Sardegna per niente balneare, affascinante, non contemplata nella promozione turistica; almeno non lo era negli anni Ottanta, se non per i rari e veri cultori. Ricordo l’effetto di Su Gologone, la sorgente di un rio che si raggiunge penetrando tra rocce calcaree (carsiche?) e boschi: stupefacente per chi abbia l’immagine di una Sardegna di sabbia, acque da piscina, rocce bianche e rosa sul blu. Qui, sembra di essere nelle montagne del Continente e il Mare non si “sente” in nessun modo. Ricordo solo il nome di Cala Gonone, a sud di Olbia: abbiamo camminato su una lunga diga che proteggeva il porto, ma la memoria non ha conservato nient’altro se non i compagni di Girolo, che camminano, imbacuccati, opponendosi al vento. Invano. 

GALLURA

All’epifania del 1983, avvenuta grazie a Cecilia, è seguita una frequentazione estiva della Sardegna, sempre nella parte nord: la Gallura tra Olbia dove si arrivava con gli aerei di Alisarda (compagnia di linea anche quella dell’Aga Khan) e l’Isola Rossa, dalla parte opposta. Grazie alle amiche biellesi di mia sorella, Stefano ed io saremmo stati a fare il mare a Monte Petrosu (San Teodoro) ed in Costa Paradiso (Isola Rossa), per qualche estate. Poi ci spostammo a Baratti, imperdibile, dove faremo un Girolo. Così ho potuto conoscere bene anche l’acqua della Gallura, che a mio parere non ha eguali (al mondo?). La prima volta che Stefano ci ha messo dentro un piede, mi ha guardata e ha detto incredulo “ma il Mare è così”?!! Per uno che è cresciuto facendo il bagno nei rii di Venezia e poi nell’Adriatico del Lido, lo shock è stato totale. Quell’estate si è preso una scottatura sui piedi, tale che per diverse settimane sembrava indossasse i sandali anche se erano nudi: gli erano rimasti a strisce bianche e rosse. Per il resto della vacanza è venuto in spiaggia indossando calzetti da tennis, e sotto una farcitura di crema lenitiva.  Poi, da sola, sarei stata per lavoro, a Cagliari (dove ho partecipato alla stesura di una Legge, come una biellese del Regno di Sardegna!) e nel Sulcis, per un progetto europeo. Ma la vera Icona è rimasta Arzachena e benché mi siano piaciuti molto il Poetto e anche Carloforte, non c’è confronto. Dedicherò un Girolo d’antan a Monte Petrosu e Isola rossa (le vacanze risalgono agli anni Ottanta) . Siamo tornati anche a Caprera e alla Maddalena, al Capo Testa e in Costa Smeralda, a vedere Azzurra. Mia madre Giò (quella di Machaby,) scrive sul suo Giornale di Viaggio, 1984 “si va a Porto Cervo che a me dice poco e quel che mi dice, Natura a parte, non mi è piaciuto. Vista Azzurra. Viste quel po’ po’ di barche, barcone, barchissime, lì ancorate. Lei preferiva “battere la costa” coi suoi fidi scudieri, passeggiare con sua nipote Beatrice (che conoscerete nel Girolo Maspalomas) al mattino presto, tra mucche e asinelli, poi fare colazione con le seadas appena sfornate a San Teodoro. Una Gran Maestra di Giroli.

LETTURA

C’è stato un tempo, quello di Arzachena, in cui prima di girolare in luoghi sconosciuti, leggevo dei romanzi che avessero autori o argomenti locali: adesso trovate suggerimenti di questo tipo nelle Guide (come la Lonely Planet) e in moltissimi siti. È diventato di moda. Nel 1979 avevo letto di Elio Vittorini, sicilianissimo, “Sardegna come un’infanzia”, un diario di viaggio: da lui ho saputo cos’era uno stazzo, prima di abitarci. Poi, ovviamente avevo letto la Deledda, Canne al Vento, Marianna Sirca e Il segreto dell’uomo solitario.  Ma, sono sincera, il vero capolavoro della Deledda, Annalena Bilsini l’ho letto solo in clausura, nel 2020. Hanno fatto bene a darle il Premio Nobel. Invece, in una estate a Monte Petrosu, ho trovato in casa La vedova Scalza di Salvatore Niffoi, un sardo contemporaneo. L’ho trovato all’altezza dei personaggi della Deledda, ma cento anni dopo. Da nativa biellese, sento di dovervi indicare il Conte Alberto de La Marmora, col suo Voyage en Sardaigne (di inizio Ottocento): la sua descrizione della spiaggia della Gallura è commovente. 

Infine, tra i libri, devo citare anche me stessa. Nel 1993 ho scritto un manuale per studenti “Inventare i luoghi turistici”, nel quale un Capitolo è dedicato alla Costa Smeralda, un caso di studio esemplare. Una Icona nello sviluppo, ex nihilo, di un sito per villeggianti. I libri che ho scritto per lavoro sono andati tutti al macero, nonostante le pregiate case editrici (CEDAM e Il Mulino) che li hanno ceduti, poco prima, al prezzo simbolico di 1 euro ciascuno. Io non ne ho comprati.

Elio Vittorini - Sardegna come un'infanzia